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Ultimo aggiornamento il 25/04/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Editoriali/826

I genitori di Regeni

Questo articolo di Tommaso Di Francesco è apparso su il Manifesto.

 

Lo chiamano « caso Regeni». Una espressione odiosa e distaccata. Giulio Regeni era un giovane ricercatore di 28 anni – impegnato sulla questione dei sindacati indipendenti egiziani – sequestrato negli ultimi giorni di gennaio del 2016, torturato e ucciso barbaramente dai servizi segreti del generale golpista Al Sisi – prese il potere nell’estate del 2013 con un golpe sanguinoso che il Nobel per la letteratura Orhan Pamuk definì «come quello di Pinochet».

Il regime militare del Cairo, dove denuncia Amnesty International ogni giorno spariscono due oppositori (v. anche l’ultima vicenda di Zaky) si è caratterizzato per depistaggi e falsità per allontanare la verità evidente sul barbaro omicidio: la responsabilità diretta di Al Sisi. Ma c’è un’altra responsabilità che non va taciuta: quella dei governi italiani che si sono succeduti in questi anni. A partire dal presidente del Consiglio Matteo Renzi che sdoganò il golpista diventato presidente egiziano, andando al Cairo e invitandolo come «uomo nuovo del Medio Oriente» in Italia; un Matteo Renzi, costretto ad impegnarsi per la verità da un vasto movimento che ha sempre visto in prima fila la famiglia Regeni; ma che in realtà fece tutto il possibile per far passare Al Sisi come «innocente» con abili interviste ad autorevoli giornali.

Gentiloni era ministro degli Esteri, ma non lesinò promesse, anche quando diventò presidente del Consiglio. Che, dentro una grande puzza di petrolio, promesse sono rimaste.Ereditate e peggiorate quanto a fumosità e contraddizioni poi dal governo giallo-bruno M5s e Lega. La crisi su un delitto così vergognoso è alla fine passata nelle mani del Conte bis, soprattutto in quelle del signor «voglio ...

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Questo commento di Claudio Sabelli Fioretti è apparso oggi sul Fatto.

 

Sono i soliti napoletani. Non potendosela prendere con i meridionali per aver diffuso il virus (merito – come tutti sanno – dei milanesi) tutti se la prendono con loro perché festeggiano la vittoria. Io ricordo le strade di Napoli tutte dipinte di azzurro quando vinsero lo scudetto. I napoletani sono fatti così, esagerano. Scendono nelle strade, si abbracciano, si baciano, si stringono. Le mascherine? Stiamo scherzando? Bastano le sciarpe azzurre a salvare i napoletani dai bacilli. Il Covid? Abbiamo la Coppa. Chi vince è immune. E gli altri rosicano.

I grandi giornali pubblicano foto e commenti scandalizzati. Ma come, dopo tutti i sacrifici? Ricordate Atalanta-Valencia quanti positivi causò? Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms, ad “Agorà”, Rai Tre, si lascia andare ad un commento ra...

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Una premessa è necessaria: le migliaia di tifosi che si sono riversati per strada dopo la vittoria della Coppa Italia da parte del Napoli hanno sbagliato. Siamo ancora in emergenza Covid ed è stata una cosa da irresponsabili.

Chiarito questo, la vicenda è poi diventata una catena di errori a raffica indegna di un paese civile. Salvini scende in campo e raglia, non senza un pizzico di razzismo. Il sindaco di Napoli de Magistris parla di una "comprensibile festa" come se fosse un fatto normale. Infine, il presidente De Luca che avrebbe potuto chiudere la questione con la sua proverbiale ironia invece tuona contro milanesi e veneti e aggiunge che sarebbe successa la stessa cosa anche a Milano. E avrebbero sbagliato anche a Milano, caro presidente.

Quello che è accaduto a Napoli è paradossale. Che senso ha fare giocare le gare a porte chiuse se poi, di fronte a un successo importante, migliaia di persone si assembrano a poche centinaia di metri dallo stadio? Insomma, una presa per i fondelli.

Abbiamo sempre sostenuto che la politica della repressione e basta non porta da nessuna parte. In questo caso, però, se dobbiamo correre simili rischi è meglio rivedere le decisioni prese e fermare il campionato, almeno fino a quando la gente non crescerà.

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Pubblichiamo un’articolo di Giovanni Cucci S.J. tratto dall’ultimo numero di Civiltà Cattolica.

 

Un test eloquente di quanto il digitale abbia modificato il nostro modo di vivere è il rapporto con il tempo. È ormai appurato che la percezione temporale diminuisce nel corso della navigazione: ci si trova al termine della giornata senza avere consapevolezza della sua effettiva durata, così come è altrettanto difficile ricordare cosa si sia visionato durante le ore trascorse davanti allo schermo. Tutto sembra appiattirsi nell’istante, senza memoria e senza durata. Tale schiacciamento sulla dimensione presente della temporalità non è nato con il web, ma è parte di un più generale clima culturale che ha profondamente rivisitato la nostra relazione con il tempo… Il rapporto con la morte è un parametro di riferimento emblematico. Tale tema acquista un’ulteriore valenza nell’e...

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Questo commento della virologa Maria Rita Gismondo è stato pubblicato sul Fatto.

 

 

I versi di “A livella”, scritti da Giacomo Rondinella e Antonio de Curtis (Totò), meriterebbero di essere letti con attenzione per non dimenticare che tutti siamo uguali davanti alla morte. Non è mai stato così, nemmeno durante una pandemia. Chi ricorda i morti in Africa? Lì, oltre che per malaria e Aids, si muore ancora per Ebola, guerre dimenticate, denutrizione, dissenteria. Solo qualche minuto in tv per l’invasione delle locuste, che potrebbe essere grave quanto una pandemia. E il Covid? In Africa sembra che l’informazione trovi confini invalicabili. Altro che infodemia! Lì è difficile raccogliere le notizie, ma anche diffonderle e renderle appetibili all’estero. Secondo l’Oms, in Africa il SarsCoV2 si propagherà in maniera più lenta, ma rimarrà più a lungo. I modelli che h...

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Al centro Conte

Questo pezzo di Norma Rangeri è stato pubblicato su il Manifesto.

 

L’Italia che a villa Pamphilj esibisce la grande bellezza romana dello scultore e architetto Algardi, soffre di una grande bruttezza perché è paese malato soprattutto di diseguaglianza. Tra Nord e Sud, tra uomini e donne, tra giovani e vecchi e, naturalmente tra ricchi e poveri. Come su queste pagine ha scritto Pierluigi Ciocca, 4,4 milioni di imprese possiedono un patrimonio netto di circa 10 trilioni di euro: quattro volte il debito pubblico. Eppure tra le forze che più apertamente si contrappongono al governo spicca proprio Confindustria chiedendo più soldi pubblici anziché investire l’immenso patrimonio per costruire nuovo lavoro.

E nel giorno in cui villa a Pamphilj saranno di scena imprenditori e sindacati, il governo dovrà dire come stanno insieme la promessa di inclusione sociale e la r...

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