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Ultimo aggiornamento il 03/05/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Questa non è una bella storia. Qui si parlerà del fallimento di un mestiere. Il giornalismo è una scelta. Almeno per me è stato questo. Una opzione legata a valori precisi, primo fra tutti tentare di raccontare la verità. Sarà per questo che non riesco a capire come ci siamo trasformati in una classe di mistificatori, senza rispetto per noi stessi e i lettori. Il mestiere non è stato ucciso dal web. Era già morto da tempo, da quando una classe di pochi privilegiati ha badato solo a mantenere intatte le sue conquiste, ammesso che si possa chiamarle così. Da anni non si esce più dalle redazioni, tutto passa per le agenzie. Ci si appiattisce sulle stesse cose, senza entusiasmo, con uno spirito impiegatizio di chi passa la giornata pensando alla fine del mese. Lo scoop non esiste più. Difficile che in una redazione si senta dire “questa cosa l’abbiamo solo noi”. Per arrivare a questo bisogna scavare, sacrificarsi, insomma lavorare. E noi giornalisti da anni non lavoriamo più. Scriviamo male e non leggiamo. Guardiamo i titoli. Una casta tronfia che ha anche impedito ai più giovani di vivere un rapporto vero con la scrittura. E forse è il caso di ripartire proprio dalla scrittura.

 IL CORRISPONDENTE

Era una delle pochissime figure pure che si poteva trovare qualche anno fa, soprattutto nei giornali locali. Spesso semplici portatori di notizie ma sempre preziosi. Poi comparvero televisioni e siti. Così anche loro si sono adattati all’andazzo generale. Lo stesso articolo passa in tivù, sul web e finisce infine al giornale già vecchio e molto spesso da riscrivere completamente. Con i compensi da fame (e in molti continuano a non pagare complice un sindacato di categoria corrotto e compiacente) era normale che accadesse. Ma chi sta in redazione non ha fatto nulla per arginare la deriva e il copia e incolla diventa la normalità. Così, tranne eccezioni sempre più rare, si perde il piacere del mestiere, la voglia di raccontare un fatto.Il prodotto si impoverisce. Un giornale scritto male non ha un futuro. Questa situazione non dipende solo dalla classe giornalistica. Esiste una cultura imprenditoriale che porta le aziende a tagliare. E’ la strada giusta? Io credo di no. Spesso si peggiora solo la qualità e non siamo più capaci di raccontare nulla. Non si tratta di descrivere un fatto bene o male. Non lo si descrive affatto. Riempiamo le pagine con cose che la gente già conosce. Non c’è animo nemmeno in quell’anello della catena, il collaboratore, che poteva dare un minimo di vitalità al cadavere agonizzante.

 I PIONIERI

La prima volta che scrissi un pezzo di cronaca il mio capo dell’epoca fu molto chiaro: firmerai il pezzo solo se trovi la foto del morto. Un 17enne si era schiantato con lo scooter. Trovare una foto fa crescere professionalmente. Se non hai l’amico all’ufficio anagrafe sei fottuto. Allora comincia il giro tra amici, parenti distrutti, fotografi della zona che potrebbero avere una fotografia. Si apriva una sorta di caccia grossa. Non era bello allora come non lo è oggi. Ma questa cosa ti faceva crescere dentro, capivi le persone, imparavi a muoverti. Costruivi la tua professionalità, minuto dopo minuto. Oggi no. Molto spesso i ragazzi sono su facebook con centinaia di foto. E se non trovi il morto sul social network ti fermi, magari dopo un accordo con gli altri per cui se la foto la trova uno perché è bravo, o anche solo fortunato, la passa anche agli altri. La famosa teleferica sulla quale, forse, conviene soffermarsi un attimo.

 GLI ACCORDI

Una premessa per evitare ipocrisie. Non tutti gli accordi sono errati. Esiste un margine dove la gestione comune della notizia a volte è addirittura auspicabile. Ma se si va oltre si contribuisce ad ammazzare questo mestiere. Qualcuno obbietterà che in fondo ogni giornale ha il suo lettore e solo un addetto ai lavori si accorge della “teleferica” costante. Non sono d’accordo. Bisogna andare oltre. Un cronista vero deve provare una sana paura. Solo così rende al meglio. E non c’è timore peggiore della “bucatura”. La “teleferica” è una protezione, una sorta di assicurazione sulla notizia. Certo, si campa più tranquilli ma si perde forza, capacità di penetrazione e cattiveria. Si diventa sciatti e questo, sul lungo periodo, il lettore lo nota. Alla fine non passerà alla concorrenza. Non credendo alla categoria nel suo complesso non comprerà più un giornale. E questa non è più una questione per addetti ai lavori.

 LA DIGNITA'

Siamo in vendita e comprarci costa veramente poco. Uffici stampa, rapporti con enti istituzionali, pacco a Natale, telefonini. C’è un corrispondente che prende 50 euro per fare recensire il libro di qualche povero diavolo. Mangiamo l’osso che il padroncino di turno lascia. Una volta un collega che si occupa di sport andò a intervistare il presidente di un squadretta di calcio minore. Quando stava andando via il presidente lo bloccò: gli offrì salumi e vino prodotti in casa. Il collega basito chiese il perché del dono. La risposta fu chiara: quello che c’era prima di lui prendeva sempre il “regalo”. Ci si vende per il tozzo di pane, si perde la dignità, si contribuisce a uccidere questo lavoro. Qui non parliamo di massimi sistemi. I bei discorsi sulla libertà di stampa oggi farebbero rivoltare nella tomba Pulitzer. Siamo veramente senza pudore.

 TUTTI UGUALI?

Generalizzare sarebbe ingiusto. Io tento di raccontare una mentalità diffusa, penetrata nelle redazioni e tra gli stessi collaboratori peggio di un cancro. Difficile alla fine non farsi contagiare dall’andazzo generale. Le eccezioni? Giovanni Tizian a Modena ha strappato un contrattino solo dopo essere stato minacciato. Gira con la scorta. Il primo Saviano, quello che non si vendeva per 10000 euro minimo, ha scritto cose importanti. Hanno cercato di fare delle inchieste serie, documentate, senza l’ossessione di vendere. Hanno tentato di raccontare le loro verità. Scavare, scavare e scavare: un motto che oggi è merce rara. C’era un ragazzo che si chiamava Giancarlo Siani. Ha pagato con la vita la sua voglia di capire i meccanismi criminali che regolano la camorra. Non aveva un contratto. Era un abusivo. Sembra paradossale ma è così: i giornali che dovrebbero avere pareti di vetro alla fine sono un concentrato di illegalità. Persone sotto pagate o non pagate affatto, buste paga fasulle, collaboratori sfruttati che, se va bene, prendono cinque euro a pezzo, mancati versamenti agli enti previdenziali, e via discorrendo. Altro che case di vetro, sono un monumento alla merda. E qualcuno ha anche ricevuto riconoscimenti dai parenti delle vittime di mafia e camorra. Paradossale, o no?

 LE TELEVISIONI

Non amo la censura, credo che, al di là di ogni cosa, non serva a nulla. Ma un controllo su quello che passa per le televisioni ci vorrebbe. Il direttore di una emittente locale in un accorato editoriale ha spiegato che non avrebbero parlato dell’ex sindaco della città arrestato per camorra, perché era un “loro amico”. Questo è il livello, c’è poco da stare allegri. Qualcuno potrebbe affermare che, però, c’è concorrenza. No, perché se il proprietario di un’altra emittente, non paga in estate quasi tutti i suoi giornalisti perché, tanto, si lavora poco non può esserci concorrenza. Si scatena un meccanismo per cui si gioca al ribasso e alla fine si tratta di capire, come in una gara, chi tocca prima il fondo. I politici hanno capito l’andazzo e agiscono di conseguenza. Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, nonché finanziatore più o meno occulto di Lira Tv, si lascia intervistare una volta alla settimana, il venerdì.Una cosa avvilente. Il cosiddetto giornalista fa domande del tipo: “Sindaco, è soddisfatto di come procedono i lavori al Crescent?”. De Luca parte con un comizio che dura un paio d’ore. E siccome il nostro con la stampa non parla, bisogna anche vedere questa vergogna professionale, prendere appunti e riversare una marea di ovvietà sul pezzo che uscirà il giorno dopo. La casistica è ampia. Si potrebbero fare tantissimi esempi ma si arriverebbe sempre alla medesima conclusione: tutta questa robaccia con il giornalismo non ha niente a che vedere.

 I SITI

Potevano diventare, e fortunatamente lo possono, ancora, un’occasione di riscatto. Costi contenuti, una utenza giovane, possibilità di non dovere rispondere a un padrone o alla pubblicità, forza di veicolare notizie che non potrebbero trovare posto e dignità altrove. In verità i grossi giornali hanno fiutato l’affare e lo sforzo dal punto di vista degli investimenti è stato forte. Penso al sito di Repubblica, per esempio. Il gruppo l’Espresso, di cui sono dipendente, ha puntato molto sul web. Alcuni risultati sono sicuramente apprezzabili: l’interscambio tra quotidiano cartaceo e l’on line funziona bene. Ma poi si gratta e scopri vizi antichi. Questo accade molto in chiave locale, ma non solo. Non basta cambiare lo strumento. “Salernonotizie” è un sito molto visitato. Fanno inchieste? No. Copiano le veline per la cronaca nera, la politica è sempre e solo il sindaco De Luca (quello delle auto interviste), lo sport spesso si riduce a sfogatoio del tifo più becero. Non passa nemmeno per la testa di curare la scrittura, mettere foto decenti, trovare almeno una notizia. No, si fa tutto nella massima superficialità. La forza dell’on line però sono i blog. Una speranza per cercare di ripartire ricordando perché uno ha scelto di fare questo mestiere. Blog non significa scrittura in libertà. La questione è molto diversa. Una fonte di informazione libera ti consente un lavoro certosino. Significa parlare di ciò che tutti ignorano, documentarsi, studiare, mettersi ogni giorno in discussione con la possibilità di relazionarsi con il lettore in tempo reale. I blog e quei pochi siti veramente giornalistici sono una delle poche speranze che restano a questa professione.

LE SCUOLE

Io sono diventato professionista grazie al praticantato fatto in una scuola di giornalismo, la Luiss, a Roma. Era il 1993, le scuole riconosciute dall’ordine erano pochissime, non avevo altra scelta se volevo fare questo mestiere. Poi si è assistita a una proliferazione nel corso degli anni. Addirittura è nata una facoltà tutta per i comunicatori. Cosa succede in pratica? Semplice. Ti iscrivi a queste scuole che, tranne qualche rara eccezione, costano un occhio della testa. Dopo due anni diventi un professionista disoccupato. Difficile anche trovare una collaborazione visto il terrore che c’è per eventuali vertenze di lavoro. In due anni hai ascoltato giornalisti che facevano lezioni ricordandoti sempre che era meglio cambiare strada perché lavoro non c'era. Ai miei tempi i vari Paolo Franchi, Stefano Folli, Igor Man, e tanti altri ancora venivano a dirci di non fare i giornalisti dimenticando che chi ascoltava le loro dotte dissertazioni pagava fior di quattrini. Ovviamente queste inutili scuole sono diventare centri di potere per le varie cosche giornalistiche. E all’università non è che vada meglio. Sia chiaro, l’idea di dare una base solida al comunicatore non è sbagliata. Poi ti ricordi che sei in Italia, che l’ordine dei giornalisti andrebbe abolito, dai uno sguardo alle materie di esame e capisci che è tutto un imbroglio. Allora, come si fa a prendere sul serio eticamente tutto ciò?

 GLI STAGISTI

Ne sono passati tanti, anche nel mio giornale. Vengono dalle scuole. A parte utilizzarli per fare delle vere e proprie sostituzioni nei periodi estivi, lasciano sgomenti. Non è un discorso di capacità. Ne sono capitati di bravi e meno bravi. Il problema è che vivono fuori dal mondo. Conoscono perfettamente la crisi irachena, fatto positivo certamente, ma se li mandi a un corteo gli capita di non scrivere che strade ha attraversato, più o meno quante persone c’erano, se era esposto uno striscione particolare, diverso. Insomma, tutto fuorché cronisti, ma non bisogna meravigliarsi. Redattori con anni di servizio ne combinano di peggiori.

 LA LINGUA

I linguisti usano un termine per descrivere un fenomeno diffusissimo: “analfabetismo di ritorno”. In due parole si indicano in questo modo i soggetti che hanno un’istruzione almeno medio-superiore ma che con il tempo hanno dimenticato come si scrive. Insomma, gli analfabeti ritornano. In tanti sono redattori e collaboratori. Tutti accomunati dalla stessa ignoranza. Non è mia intenzione fare una sorta di bestiario del giornalista ma su alcune cose bisogna soffermarsi. Non c’è nulla da ridere. Sono errori grammaticali e sintattici. Nella scrittura giornalistica il passato prossimo è notoriamente il verbo più usato. Ma quante volte ho dovuto correggere pezzi dove una discarica “venne sequestrata ieri mattina”. Forse non è meglio ripetere due volte, come ha insegnato Sergio Lepri, la parola “ospedale” evitando di ricorrere a sinonimi orrendi come “nosocomio”? Ma sono i neologismi il piatto forte. “Fiumottolo”, “avvolte” (quando si voleva dire “a volte”), “un brutto and’azzo”, “un piccolo bambino bimbo” e potrei continuare all’infinito. La fantasia veramente non conosce limiti. Ho sempre pensato che portare il giornale nella scuola sia una buona idea, anche se datata. Il problema, quando si è analfabeti, è che non si riesce a spiegare un fatto.Chi scrive, se ha senso della notizia, capisce che la storia c’è ed è anche buona. Ma se non riesci a scriverla non puoi pensare che la capisca il lettore. Tornare a scuola si deve, chiaramente evitando quelle di giornalismo. Un pezzo scritto male andrebbe rifatto. Non succede quasi mai. Non è il problema dei tempi, questa è una scusa. La verità è che abbiamo perso anche la voglia di spiegare dove e perché si sbaglia nella speranza di avere un prodotto migliore. Si mette una pezza qui e un’altra lì, un poco di sano copia e incolla e come per magia il problema è stato risolto.L’ennesima sconfitta di chi ha perso l’entusiasmo o, forse, non lo ha nemmeno mai avuto.

 LA POLITICA

Molti si riempiono la bocca quando parlano di “linea editoriale”. E aggiungono: “Quella notizia non è uscita perché contraria alla politica del giornale”. Sono non più di cinque, sei al massimo i giornali che in Italia hanno la forza di farsi sentire nel palazzo. Nei giornali locali la questione è molto diversa. I quotidiani del gruppo l’Espresso devono produrre utili. In due parole, pubblicità e vendita in edicola. Notoriamente la politica, a parte rare eccezioni, non fa vendere una copia. Io devo dire che alla Città di Salerno, dove lavoro da sedici anni, non ho mai ricevuto pressioni. Il guaio vero qui, purtroppo, sono i collaboratori legati al famoso tozzo di pane. Se l’assessore ti garantisce un piccolo incarico te lo ritroverai a parlare su tutto. Il controllo in redazione a volte non è semplice. Scoprire il trucco può diventare un problema. Alla fine anche quel poco di politica che si scrive finisce per essere inquinata, con buona pace del povero lettore.

 LO STIPENDIO

I giornalisti guadagnano troppo. Specifichiamo: una ristretta casta ancorata a privilegi antichi difende il salario tollerando nelle redazioni le peggiori nefandezze, a partire dallo sfruttamento vergognoso dei collaboratori. Va detto che nel periodo delle vacche grasse il sindacato faceva accordi da fare inorridire. Al Mattino, ma di esempi se ne potrebbero fare tanti, tre cronisti andarono in pensione pattuendo l’assunzione dei loro figli. Non è entrato il più bravo, non è stato considerato il merito. Sono entrati i rampolli. Perché gli editori hanno permesso la nascita di redazioni con il doppio del personale che era realmente necessario? Non poteva durare e non è durata. Io sono molto legato, per tanti motivi, al Manifesto. Ogni anno questo giornale rischia di chiudere e, poi, con grandi sacrifici, si salva. In questi casi è successo anche grazie ai soldi dei contribuenti. E’ giusto? Io oggi credo di no. Penso che se un giornale non fa quadrare i conti deve chiudere. Non è facile dirlo ma forse il Manifesto vende sempre di meno anche perché il prodotto è peggiorato come qualità. Non sono sicuro di questo ma, forse, il problema andrebbe visto anche sotto questo aspetto.

 GLI EDITORI

Hanno le loro colpe gli editori. Lasciando perdere le solite e inutili chiacchiere su editori “puri” e “impuri”, il vero problema è stato il nodo scorsoio della politica. L’editore è un soggetto che fa un investimento. De Benedetti ha sostanzialmente diversificato il modello informativo. L’ultimissima operazione in ordine di tempo è stato l’accordo con l’Huffington Post. Multimedialità è diventata la parola magica. Ma torniamo alla politica e alla follia delle assunzioni a raffica di qualche decennio fa. Ne ho già accennato prima. Indubbiamente lo sfoltimento odierno è legato anche alle nuove tecnologie. Ma dire che è dipeso solo da quest’ultimo fattore significa raccontarsi l’ennesima balla. Se oggi i giornali non assumono più, se anche i collaboratori più bravi non hanno una prospettiva, se il prodotto si è andato impoverendo in modo catastrofico, ciò è accaduto perché in una determinata fase storica alcuni editori hanno assunto su pressioni delle classe politica. Sarebbe interessante capire se sia esistita una tangentopoli anche nella carta stampata. In una situazione dove la crisi è terribile anche per il mercato pubblicitario, soprattutto al Sud, si taglia, o, come direbbe qualcuno, si “razionalizza”. Non è detto che questo comporterà sempre e per forza di cose dei giornali peggiori. Dipende dalla capacità di evitare un impoverimento delle vere risorse nelle redazioni. Anche perché, sarà brutto dirlo ma è così, prepensionare un incapace non depotenzia di certo un giornale.

 IL FUTURO

Da un punto di vista squisitamente economico penso che sono due le realtà, per motivi diametralmente opposti, che reggeranno meglio l’urto della crisi. I grandi giornali, che hanno diversificato il prodotto, sfoltito i ranghi e tenuto sotto controllo rigido i bilanci. Dall’altro lato ci sono i piccoli giornali che potrebbero, visto i costi contenuti, dire ancora qualcosa. Chi sta in mezzo rischia grosso. Ma, quando siamo ormai arrivati quasi alla fine di questo ragionamento, se un giovane con talento e passione vuole fare questo mestiere a quale santo deve votarsi?

 LA TECNICA

Lo dicevo all’inizio. Il web, pur fra tante contraddizioni e difficoltà, ha spalancato una porta insperata fino a poco tempo fa. Riuscire a lavorare su un sito serio, rigoroso, alternativo, può essere una strada. Sudare per conquistare visibilità, cercare di attrarre investitori pubblicitari evitando le solite marchette, potrebbe ridare dignità a questo mestiere. Non è facile. Il web è una giungla, trovi strumenti informativi asserviti, come nei giornali. Ma siti e blog sono il futuro. E possono anche rilanciare la carta stampata che, per un editore realmente indipendente, ha costi iniziali proibitivi.

 L’ETICA

Un giornalista deve raccontare i fatti. Non deve mentire, deve essere onesto, non accettare soldi e regali. Un giornalista deve contribuire, per ciò che gli compete, alla crescita civile di un paese. Una stampa asservita e ignorante viene tollerata dal potere, non fa male, non punge. Tornare in strada, battere i marciapiedi, dare voce ai senza voce. Ripartire da dove tutto era cominciato. Studiare, aggiornarsi, capire che oggi solo una piccola parte della realtà viene raccontata. Il resto non conta. E questo accade perché è faticoso. Abbiamo perso ogni moralità ma forse siamo ancora in tempo per compiere un percorso a ritroso che ci permetta di tornare a rispettare di nuovo noi stessi e i lettori che comprano un giornale perché credono a quello che scriviamo.

Carlo Meoli