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Ultimo aggiornamento il 02/05/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Pubblichiamo la prefazione di Lorenzo Guarnaccia del libro di Ubaldo Baldi sull'occupazione della "Gambardella" a Nocera Inferiore nel 1974.

 

La storia della “Gambardella & Figli” non è una vicenda nocerina ma italiana. Essa spazia, infatti, su tutti i fronti strategici ed operativi che hanno caratterizzato l’industrializzazione italiana e quella del Mezzogiorno in particolare. La lunghissima vertenza sindacale dell’azienda, infine, si concluderà ancora una volta all’italiana: accordi sottoscritti e non rispettati!  Una lotta sindacale che coinvolse tutti i lavoratori ed anche la città, sensibile alla paventata chiusura di uno stabilimento storico, l’ennesimo, che aveva un brand internazionale riconosciuto e fette di mercato importanti in diversi Paesi, tra cui la RAU e gli USA. Giustamente, infatti, l’autore ha inquadrato la lotta dei lavoratori conservieri della Gambardella in un quadro generale di crisi del settore e di difficoltà complessive dell’industria italiana. 

 

Questo ci permette di considerare da una parte la forza dell’armatura industriale salernitana e campana, dall’altra la mancanza di una programmazione territoriale a difesa delle produzioni agricole e la modesta o inesistente capacità degli industriali di avvertire i cambiamenti sociali che attraversavano non solo la fabbrica ma in generale la società italiana, influenzando anche i tempi, i modi ed i gusti dei consumatori. Il sostanziale immobilismo del ciclo produttivo agricolo ed industriale sarà uno dei nodi intorno al quale ruoterà la storia del settore, costituendone un punto di debolezza decisivo. Le condizioni climatiche e la feracità dei terreni, favorevoli ad un’abbondante produzione, avevano attratto diversi capitali nel salernitano ed in particolare nell’Agro. I dati riportati nel libro di Ubaldo Baldi danno bene l’idea del peso e dell’importanza di queste aziende sul piano occupazionale e della ricaduta positiva sull’economia delle città. La situazione di sostanziale staticità fu scossa dalla crisi dei primi anni 1970, quando il lungo ciclo di crescita della ricostruzione post bellica aveva esaurito la sua spinta. 

L’Italia era diventata una delle cinque nazioni più industrializzate del mondo. Il capitalismo italiano, che aveva strutturato le sue forze dinamiche e le relative istituzioni finanziarie (banche, borsa) e politiche (PPSS, Enti di intervento pubblico ecc.), approfittando di questa crisi, diede la stura ad una razionalizzazione capitalistica anche dei settori che avevano goduto di condizioni locali di favore. Le aziende conserviere dell’Agro utilizzavano tra l’altro, praticamente a costo zero, la risorsa acqua per loro fondamentale, con l’emungimento copioso delle falde acquifere in una situazione in cui, paradossalmente, l’acqua potabile non arrivava ancora a sufficienza in tutte le abitazioni private. L’acqua era indispensabile in grandi quantità, sia per il lavaggio dei pomodori sia per il loro trasferimento verso i macchinari attraverso canali all’uopo tracciati, che ne utilizzavano la forza per spostare l’ortaggio; inoltre le fasi di produzione del vapore e la bollitura dei barattoli riempiti di prodotto erano grandi consumatrici di acqua. Anche questa risorsa locale rendeva più competitive le aziende del territorio. 

Un nuovo soggetto si era, intanto, affermato rapidamente sul mercato, espandendo la sua presenza fino a riguardare tutto il territorio nazionale e tutte le merci: la GDO. Questo nuovo attore mutò gli equilibri nell’agroalimentare, uscendo dal ruolo di mero acquirente di prodotti diventando leader nella capacità di orientare le decisioni dei consumatori finali. Le industrie del pomodoro pelato, perdendo la loro rendita di posizione, si trovarono a fronteggiare la concorrenza imprevista di aziende di altre regioni, alla quale non potevano rispondere sia per carenze tecnologiche sia per i costi più elevati del prodotto agricolo che utilizzavano. Il pomodoro San Marzano, cultivar mitica dell’Agro, mal si prestava alla meccanizzazione agricola e la cura continua di cui necessitava, e di cui necessiterebbe anche oggi, ne aumentava il costo di produzione. Le continue ricerche di ibridi sempre più rispondenti alle convenienze industriali resero praticabile la coltivazione del pomodoro in quasi tutte le zone d’Italia e, di conseguenza, la possibilità di delocalizzazione aziendale che cominciò proprio in quegli anni. Molte industrie, infatti, cominciarono a spostarsi verso le zone di maggior produzione di queste altre specie di pomodoro come la Puglia, il basso Lazio, la Toscana mentre in Emilia riprese con grande forza - qui il ruolo della GDO è decisivo - la produzione. 

Uno scenario mutato. La mancata programmazione campana aveva lasciato ai contadini la decisione relativa ai quantitativi da coltivare ed alla forza d’imperio delle aziende quella sui volumi da ritirare ed il prezzo da praticare. L’insicurezza tra i contadini regnava sovrana e il prezzo del pomodoro era legato esclusivamente alle esigenze delle scelte produttive. L’innovazione di prodotto non aveva bisogno di pomodori particolari né di dinamiche produttive sofisticate; il cubettato e la passata, spuntando prezzi favorevoli e potendo, inoltre, usufruire di potenti e martellanti campagne pubblicitarie, si affermarono rapidamente a scapito del pomodoro pelato del tipo San Marzano. Molte aziende furono costrette a produrre in bianco per i nuovi padroni del mercato, asservendo la loro produzione a logiche sempre più restrittive per i contadini e ad uno sfruttamento sempre più intenso dei lavoratori e delle lavoratrici. In questo lavoro sporco per conto terzi c’era il loro margine di utile, dal momento che in cambio della perdita di presenza sui mercati era lasciato loro un margine di sopravvivenza.  L’autore ci parla ampiamente di questo fenomeno così come dei rapporti che si stabilivano tra operai e padroni, a cominciare dal titolo, dal significato chiaro: “Ad un cenno del capo”, indice dello strapotere esercitato nelle aziende.  Occorrono poche righe per descrivere la condizione degli operai nelle fabbriche non sindacalizzate: sottosalario, nessun diritto rispettato e spesso pochi o nessun contributo versato agli Enti previdenziali. La riflessione si potrebbe allargare anche gli Enti di controllo, poco o per niente efficaci nella lotta alle assunzioni clientelari, o fatte in cambio di denaro o di altre prestazioni, manchevoli nel contrasto del lavoro irregolare. Un laissez fair sconfortante e, però, funzionale al mantenimento di prezzi competitivi dei prodotti a scapito dei soliti noti e, in qualche modo, concorrenza sleale verso chi, pressato dal sindacato, doveva sostenere costi del lavoro più alti. 

Altro punto debole del settore conserviero campano era il prezzo del prodotto finito, soggetto alle necessità del momento degli industriali ed ai capricci apparenti delle banche che decidevano, in base a criteri spesso indecifrabili, a chi accordare crediti e a chi no. Questo elemento di instabilità nel nuovo assetto di mercato che si era creato non consentiva ai grandi gruppi commerciali interessati di stabilire con sicurezza i quantitativi di prodotto da acquistare, né la costante oscillazione dei prezzi aiutava gli industriali a programmare con certezza i volumi di produzione. Fare programmazioni precise era praticamente impossibile, per il divario tra i prezzi pattuiti e quelli realmente praticati, ed essendo spesso questi ultimi inferiori, gli industriali erano costretti a ribassare i propri, se non volevano perdere le commesse. Le inutili intese tra i produttori furono presto sostituite da dinamiche di mercato che premiavano le aziende capaci di programmare la propria produzione anche in perdita, assorbendo a volte anche quella di altri produttori - fintanto che ne traevano vantaggio, lasciandoli poi al loro destino nei momenti di crisi. Parliamo, ovviamente, delle aziende più forti, con maggiori capacità finanziarie e fortemente sostenute dalle banche. Forse giova ricordare che in maggioranza si trattava di banche di interesse nazionale e, quindi, molto sensibili agli input politici. Questo ed altri provvedimenti apriranno vaste crepe nel tessuto industriale salernitano e dell’Agro. 

In questo scenario si cala la vertenza della Gambardella e all’interno della battaglia in difesa dell’occupazione operaia troveremo risposte a quesiti altrimenti inspiegabili. Il ritiro e la macerazione dei pomodori, tramite l’AIMA prima e il premio CEE poi, costituivano un intervento sul prezzo oggettivamente a favore delle aziende più forti, le quali consolidarono il loro dominio. La combattività operaia e la solidarietà popolare costrinsero le autorità a intervenire, anche questo è descritto dettagliatamente dall’autore. 

L’estremo tentativo di salvataggio dell’azienda passava anche attraverso la SO.GE.PA., azienda partecipata dall’EFIM-IMI, che metteva in opera un meccanismo - lo pensavo allora e lo penso tuttora - semplice ed efficace: danaro liquido immediato in cambio di merce stoccata presso depositi controllati. Questo scambio, al di là delle ruberie, degli imbrogli ecc., avrebbe potuto aiutare concretamente le aziende del territorio in crisi. Stoccare una parte della produzione, che si poteva riacquistare in caso di ripresa di una domanda adeguata del mercato, rappresentava un’ottima soluzione che riduceva, e di parecchio, il potere delle banche e dei gruppi di acquisto. Non poteva funzionare, non doveva funzionare. Basta guardare lo spazio lasciato anche agli interessi privati del suo management, come mostrano le vicende raccontate dall’autore. Tutta la storia esce dai binari di una vertenza sindacale per sfociare nelle trattative di società che nascono e muoiono senza spostare di una virgola il problema di fondo: la salvaguardia del posto di lavoro per 600 lavoratori. Quando la soluzione sembra soddisfare questa esigenza e si firma un accordo con la nuova società, avremo la grande beffa del disconoscimento dei patti di lì a qualche mese. Nessun complotto, nessuno scandalo, tutto avviene secondo le leggi che caratterizzano il capitalismo. Si afferra tutto il profitto che si può ricavare a scapito del territorio e chi intralcia i piani di espansione deve essere eliminato. Vige la legge del più forte, che annulla qualunque altra considerazione. La competizione tra diverse aree geografiche è solo un’arma in più da usare per rafforzare il proprio potere nei confronti degli esponenti politici, le Istituzioni, le banche, ecc. 

La miopia delle aziende locali, quasi tutte a conduzione familiare e scarsamente preparate a confronti duri con concorrenti forti e agguerriti, rese le conseguenze più gravi. La scarsa professionalità colse molti di loro impreparati, come abbiamo detto. Meno facile da giustificare è l’impreparazione dei manager delle grandi aziende come la Cirio, la Star ed altre ancora. Leggendo la loro storia si comprende il meccanismo negativo che si ripeterà più e più volte ai danni del Sud: l’uso spregiudicato del danaro della Cassa del Mezzogiorno prima, di altre leggi ed istituzioni poi, elargito per investimenti in Campania ma poi utilizzato da quelle aziende che ritroviamo, con i relativi capitali ricevuti, intente a realizzare progetti industriali al Nord o non realizzarli affatto! Clamoroso, ad esempio, è stato il fasullo polo industriale che doveva nascere nell’Avellinese grazie agli stanziamenti della ricostruzione post-terremoto. Su quei terreni furono costruite infrastrutture e capannoni per centinaia di milioni, incassati contributi per miliardi: aziende aperte, zero! Si trattava di progetti quasi tutti di aziende del Nord!  

Una considerazione a parte merita la vicenda delle minacce a Galante Oliva, innanzitutto per il rapporto di stima e di affetto che ci legava ma anche per testimoniare che le lotte operaie in genere, quelle nelle nostre zone in particolare, sono state sempre accompagnate da minacce e prevedibili rischi di subire rappresaglie. Le vertenze operaie per salari più giusti, il rispetto dei diritti dei lavoratori e la conseguente necessità di adeguare il processo produttivo agli standard di legge per la sicurezza e la dignità dei lavoratori costituivano un costo per gli industriali, ne seguiva uno scontro aspro, come momento peculiare della lotta tra capitale e lavoro. Tuttavia occorre operare un distinguo tra le azioni intimidatorie della delinquenza comune, la sua manovalanza, i suoi piccoli affari illeciti, e le attività criminose di gruppi malavitosi organizzati che facevano pressione sulle scelte della politica, si proponevano di controllare il territorio e si infiltravano nei commerci più redditizi. Il processo Inizia in quegli anni, raggiunge il suo apice con la crisi industriale sul finire degli anni 1970 e si afferma in modo impetuoso con la ricostruzione post-terremoto degli anni 1980. Basta scorrere l’elenco dei Comuni sciolti per infiltrazioni camorristiche nell’Agro ed in Campania. Anche qui siamo in presenza di un attore importante, non un comprimario: il capitale “improprio”! Almeno io lo definisco cosi! Capitale di dubbia provenienza, anche se non esclusivamente di provenienza illecita, caratteristica che lo rende popolare e ben accetto in molti ambienti. Questo è il tipo di minaccia più pericoloso che prende corpo concretamente con la sua presenza diretta nel settore conserviero, attraverso la lenta acquisizione di aziende in difficoltà. Dalla fase speculativa – l’acquisto di grandi quantitativi di prodotto a prezzi bassi, stoccaggio e vendita nei momenti di maggior richiesta di mercato - alla fase successiva, che li vede finanziare direttamente le aziende in crisi e finire col detenerne il controllo, con la presenza del vecchio proprietario che funge da paravento. Un processo che porterà il capitale “improprio” ad essere protagonista ed addirittura accettato come regolatore e mediatore tra i diversi interessi delle aziende e dei territori in competizione. Questo salto di qualità è la novità che occorre sottolineare. Non siamo più in presenza di minacce per ammorbidire posizioni troppo rigide ma alla eliminazione pura e semplice di ciò che ostacola il perseguimento di un obiettivo economico. Tratti caratteristici, anche questi, di un certo capitalismo italiano, senza distinzione territoriali! Da Milano alla Sicilia, anzi più Nord che Sud! Per quanto “impropri” si tratta pur sempre capitali, che si investono dove il profitto è più alto ed il rischio minore. Basta sfogliare gli annali giudiziari e rileggere le dichiarazioni di molti pentiti per avere conferma di queste presenze, troppo rapidamente e semplicisticamente catalogate come episodi di corruzione. I tentativi di ricerca di una verità più approfondita sono costati la vita a molti servitori dello Stato: letture del fenomeno che non lo riducano a folclore locale o alla criminalità ordinaria sono impresa ardua, meglio non scavare troppo. 

Questi furono anni tumultuosi anche per i sindacati. L’ondata del ‘68 portò cambiamenti profondi e rinnovamento dei quadri dirigenti a tutti i livelli. La spinta di studenti ed operai per un cambiamento radicale della società investi la struttura sociale e la mutò in profondità. L’unità sindacale imponeva nuove sfide e nuovi comportamenti che non si affermarono facilmente. Il gruppo dirigente della CGIL salernitano non fece eccezione e, pur in presenza di risultati eccellenti, mal digeriva la presenza di un’autonomia nel comprensorio della valle del Sarno. Una vena amara accompagnò sempre le azioni del sindacato nocerino e del suo gruppo dirigente. La sua forza non era sufficiente a garantire che si affermassero in tutti i casi le scelte migliori per il territorio. Un esempio efficace è riportato nel libro a proposito della FATME che, come tutti i gruppi industriali esogeni che investivano al Sud, pur godendo di condizioni di favore in materia di suoli, finanziamenti ecc., impose ed ottenne una pax sociale garantita per un quinquennio. Quando nel 12 gennaio 1973 in occasione di uno sciopero generale - la Fiom e la Fillea locale d’accordo con un gruppo di ragazze della FATME - infranse il patto, picchettando la fabbrica e liberando le operaie da quel vincolo odioso che i dirigenti dell’Agro non conoscevano, si scatenò la reazione violenta dell’azienda con il licenziamento di 13 operaie. Inizia lì l’epopea di Lucia Pagano e delle sue compagne. 

Anche qui nulla di nuovo o di particolarmente scandaloso. La FATME, gruppo ERICSSON, con sede centrale a Roma, trattava i suoi affari ai massimi livelli tralasciando di impegolarsi in questioni che riguardavano il territorio del nuovo insediamento. Lasciare la gestione delle assunzioni alle forze locali non le procurava nessun problema, anzi la rafforzava nei confronti delle lavoratrici che dovevano rispondere all’azienda, al padrino politico o altri, che le avevano assunte. Anni straordinari per la CGIL dell’Agro che costruisce una forza organizzata importante non solo per i lavoratori nocerini ma per tutto il comprensorio, proponendosi come punto di riferimento democratico contro le spinte revansciste ed autoritarie che in quegli anni scuotono il paese. La lettura di alcune parti del libro mi hanno toccato molto, il tumultuoso flusso dei ricordi mi ha causato più volte emozioni intense, uguali a quelle vissute.