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Ultimo aggiornamento il 25/04/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Un sasso, un pugno o un colpo di pistola. E i danni. I morti. Tutto come un gioco, senza un pensiero che abbia l’idea della conseguenza. I ragazzini catturano una lucertola, la uccidono e la sezionano con una lametta. Danno fuoco ai formicai. Seviziano un gatto o un cane «per vedere che succede», tra i cortili e le periferie, in mezzo tra infanzia e adolescenza. Provano un’arma malcustodita dal padre cacciatore e «fanno un guaio». Cose che succedono. Il punto di questa situazione è vivo per le strade delle nostre città e dei paesi di mezzo, tra Napoli e Salerno. I minori spacciano, se va bene. I minori consumano droghe pesanti. Crack. Eroina. A Pagani molti figli d’arte della Lamia sono stati incriminati quand’erano minori perfavoreggiamento, minacce e detenzione di armi. Guidavano gruppaglie di sgherri e guardiaspalle. Appena diciottenni alcuni chiedevano «il regalo per i compagni in carcere». Rubano motorini e macchine con dimestichezza. Sorvegliano zone in cui si compiono ronde o si rivende con piazze di fumo o coca.

 

Per un bambino provare è naturale. Come per un adolescente. Così impara il dolore sul proprio corpo, e lo associa a quello degli altri. Nel percorso, costruisce il significato della responsabilità. Per farlo, agli esempi aggiunge cose concrete e valori, meccanismi e finalità. Che allo stato scarseggiano come il lavoro e la realizzazione. Così arriva il sangue. Nel 2008 a Pagani un 19enne uccise il fratellastro durante un litigio in famiglia. Nel 2005 un 17enne accoltellò a morte un coetaneo a Nocera Inferiore. Sono decine i casi di lesioni gravi per ragioni futili. Un 17enne figlio di un pregiudicato uccise uno straniero a Sarno nel 2007. L’atteggiamento è quello del comando sul proprio territorio. «Che tieni da guardare? A chi appartieni?»  L’ultimo caso è del maggio 2017, sempre a Pagani, quando due giovanissimi uccidono una prostituta che non voleva «dargliela gratis».

 

Risalendo a Napoli e dintorni i “guagliuncielli” organizzano cosche di guappi multimediali a tutti gli effetti, feroci e sanguinari. Sono criminali dai quattordici anni in su. Diventano assassini e poi  morti o ergastolani. Fuori dall’orbita delle famiglie di camorra,  a volte figli d’arte e a volte no, eseguono agguati di sangue e intimidazioni. Sparano. Prendono quello che vogliono, a suon di violenze. Si allenano con armi automatiche sui tetti della Sanità. Impongono un sistema criminale per fare soldi e comandare. Gestiscono reti di spaccio ed estorsioni sul territorio. «Commannamme nuje», dicono. Si vendicano di torti e mancanze di rispetto come farebbero a scuola. Dove non vanno più. Escono a tarda sera per le stradine del centro storico e segnano il territorio, così come piscia un cane, sparando in aria. «Facimme nà stesa».

Il racconto è tutta storia vera. In parte è già letteratura nei due romanzi di Roberto Saviano, «La paranza dei bambini» e l’ultimo «Bacio feroce», appena uscito, già nel crudo «Gotham City» del giornalista Simone di Meo. La questione è stata cinema e inchiesta nell’esemplare «Robinù» di Michele Santoro. Nel film «Pater familias» del 2003, del regista napoletano Francesco Patierno, l’orrore si annida senza struttura nelle vite quotidiane dei giovanissimi protagonisti e dei loro padri con una violenza assoluta che sembra irreale. I fatti colpiscono lo sguardo degli spettatori senza alcuna cura. Sono storie quotidiane, ogni volta capaci di annichilire chi assiste. La cronaca resta la prima ispiratrice dei fatti di sangue e dolore. Raccontare è la chiave per capire. Come per la storia di Fortuna, bimba violentata e uccisa a Caivano.

 

 

«I bambini non sanno e hanno la purezza dei sentimenti. Per questo la loro ferocia è assoluta. Come il loro amore».