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Ultimo aggiornamento il 06/05/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

La relazione della Ragioneria generale dello Stato è del 28 marzo scorso. Esattamente il giorno precedente la riunione della Conferenza Stato-Regioni che ha dato il via libera al decreto di rinvio, al 1° gennaio 2025, del nomenclatore tariffario dei nuovi Lea, i livelli essenziali di assistenza: vale a dire le prestazioni, tra visite o esami, che il servizio sanitario nazionale deve garantire gratuitamente ai cittadini. Un rinvio che posticipa ancora l’erogazione delle nuove cure frutto della ricerca scientifica. La relazione – arrivata direttamente sul tavolo del ministro alla Salute Orazio Schillaci – è firmata dal ragioniere dello Stato, Biagio Mazzotta. E chiede che “in occasione del riparto delle disponibilità finanziarie del Ssn per l’anno 2024 e per i successivi anni” siano “rese indisponibili le risorse preordinate all’entrata in vigore delle nuove tariffe e quelle per l’aggiornamento dei Lea”. Un invito a non trasferire alle Regioni 631 milioni di euro per il 2024 e 781 milioni a decorrere dal 2025. Questo almeno fino a quando i finanziamenti non saranno utilizzate per le “finalità indicate dalle norme”.

Sì, perché è dal 2016 che le Regioni ricevono soldi per cure che non vengono erogate. Da quando cioè, con la legge di Bilancio del 2015, in vista dell’aggiornamento delle prestazioni da assicurare – aggiornamento approvato nel 2017 – sono stati stanziati i primi 380,7 milioni per coprire gli ulteriori fabbisogni. Da allora, da quando ci sono stati i primi finanziamenti, si è arrivati a quota 3 miliardi e 446 milioni alla fine del 2023. Una montagna di denaro che avrebbe dovuto garantire terapie innovative contro alcuni tipi di tumori, l’inserimento nell’elenco delle malattie rare di altre patologie, nuove prestazioni per la procreazione medicalmente assistita, per gli screening neonatali, per i disturbi alimentari come l’anoressia e la bulimia, per la celiachia. E questo solo per fare alcuni esempi.

Invece – ed è sempre la Ragioneria dello Stato a metterlo nero su bianco – sono stati utilizzati per altre voci della spesa sanitaria. Soprattutto per ripianare bilanci e per cercare di sanare inefficienze e squilibri. E forse è proprio “questo il principale motivo per la richiesta di proroga da parte regionale”, scrive Mazzotta. E infatti lo schema di decreto ministeriale che ha disposto il rinvio dell’entrata in vigore dei nuovi Lea è motivato da Schillaci “dall’espressa richiesta di un cospicuo numero di Regioni e della correlata disponibilità delle restanti Regioni al riguardo”.

È così che il ministro si è accodato, il parere della Ragioneria è diventato carta straccia e si è arrivati a uno scontro interistituzionale. Praticamente tutte le Regioni hanno detto sì, discutendo “fuori sacco”: la questione non era all’ordine del giorno della Conferenza Stato-Regioni. Lo hanno fatto anche quelle poche che nel corso degli anni hanno provveduto ad aggiornare il nomenclatore tariffario, estendendo le prestazioni anche alle nuove cure. Risultato: la solita sanità a macchia di leopardo, con grandi disparità territoriali nell’erogazione dei servizi. Tutto sulla pelle dei cittadini, con l’incremento della mobilità sanitaria e del ricorso al privato.

Ma il motivo per cui le Regioni avrebbero serrato le file sarebbe molto semplice. “La verità è che tutte sono tallonate dalla sanità privata accreditata che non vuole la riduzione delle tariffe per le vecchie prestazioni standardizzate”, dice Fabiano Amati, consigliere regionale di Azione, in Puglia, primo firmatario di una proposta di legge per far entrare subito in vigore i nuovi Lea, che in tutto sono 406.

La revisione tariffaria collegata all’introduzione delle ulteriori cure da assicurare comporterebbe infatti per ambulatori e cliniche private una riduzione dei rimborsi da parte del servizio sanitario nazionale. Rimborsi previsti per la specialistica ambulatoriale (visite ed esami diagnostici) e per la protesica.

Una riduzione che secondo le associazioni di categoria della sanità privata potrebbe arrivare fino all’80% e che ha scatenato le proteste. Da qui la decisione di Schillaci – con la prevista benedizione delle Regioni – di disporre la proroga. In pratica ora la sanità italiana è ferma al 2001 – quando i Lea furono introdotti per la prima volta – nonostante già l’aggiornamento stabilito nel 2017 sia in parte obsoleto, perché superato dai progressi della medicina e della scienza. Adesso tutte le Regioni tacciono.

Ma come si è arrivati a questo punto? Le nuove prestazioni erano state messe in stand by già una volta. Avrebbero dovuto essere a regime dal 1º gennaio 2024 ma – dopo la levata di scudi della sanità privata – era arrivata la proroga di tre mesi. Adesso il nuovo rinvio. Nonostante ciò le Regioni in tutto questo tempo hanno continuato a ricevere i finanziamenti in previsione dell’applicazione delle nuove tariffe, mai arrivata. “Comprendo l’indignazione dei cittadini per il blocco delle nuove cure – dice Pierino Di Silverio, segretario nazionale del sindacato dei medici Anaao-Assomed – Ma è anche vero che se una prestazione costa di più quanto fissato dalla tariffa di riferimento quella prestazione non può essere erogata”.

Per Tonino Aceti, presidente di Salutequità, siamo invece di fronte “a una delle pagine più brutte della politica sanitaria nazionale, sia per quanto riguarda il diritto costituzionale alla tutela della salute dei cittadini sia verso il servizio pubblico, che viene ulteriormente indebolito. Bene ha fatto la Ragioneria dello Stato a sollecitare il ministro a vincolare le risorse, che sono un salvadanaio per i pazienti: il fatto che i soldi vengano destinati ad altre voci di spesa sanitaria o al ripianamento dei bilanci è di una gravità eccezionale. Questo non depone nemmeno a favore dell’autonomia differenziata: le disparità continueranno ad aumentare”.