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Pubblichiamo un pezzo di Marco Lillo apparso oggi (3-maggio-2019) sul Fatto.

Roberta Petrelluzzi ha scritto venerdì scorso su Facebook una lettera pubblica a Martina Ciontoli, condannata in appello con il padre, la mamma e il fratello per l’omicidio colposo del fidanzato Marco Vannini, avvenuto a casa Ciontoli nel 2015. Alla vigilia della puntata di Un giorno in pretura, dedicata al caso, la conduttrice ha scritto: “Cara Martina Ciontoli, ti vogliamo far sapere che siamo assolutamente in disaccordo con questo accanimento mediatico che, non si capisce perché, vorrebbe la vostra morte civile. È un segno dei miseri tempi che stiamo vivendo, dove l’odio e il rancore prendono il sopravvento su qualsiasi altro sentimento. Ci auguriamo che il nostro lavoro riesca a riportare la tragedia vissuta (perché tragedia è) alle sue reali dimensioni”.

 

 

 

Molti hanno criticato l’appellativo “Cara” rivolto a una ragazza che nelle intercettazioni sembra interessata più alla carriera del padre che a salvare il ragazzo e a trovare la verità sulla sua morte. La polemica sul “Cara” sta facendo passare in secondo piano la questione più interessante: qual è il modo corretto di seguire un caso di cronaca? Il post esce due giorni dopo il record di ascolti dei due speciali dedicati al caso Vannini da Le Iene e Chi l’ha visto. La sensazione è che Roberta Petrelluzzi si riferisse proprio a Le Iene, che avevano inseguito i due fratelli Ciontoli, quando puntava il dito contro “l’accanimento mediatico”. La sensazione è che quel “Ci auguriamo che il nostro lavoro riesca a riportare la tragedia vissuta alle sue reali dimensioni”, mirasse a segnare una distanza da quel modo di fare giornalismo.

Anche nel corso della trasmissione, Roberta Petrelluzzi ha dato l’impressione di volere segnare il percorso corretto per seguire un caso giudiziario in tv: solo quello che è negli atti sembrerebbe degno di cronaca. Solo quello che i magistrati hanno vidimato con il loro bollo avrebbe diritto di cittadinanza nel dibattito. Questa prospettiva rischia però di confondere la cronaca giudiziaria con il giornalismo e delega completamente e in bianco ai magistrati il compito di accertare la verità. Una tesi pericolosa e da rigettare.

Quando il quadro disegnato dagli investigatori è depistante (Cucchi) o sciatto (Vannini) cosa dovrebbe fare un giornalista? Limitarsi a riprodurre la foto sbiadita o taroccata ma ufficiale o dovrebbe cercare di scattare una foto più aderente alla realtà?

Per fortuna non esiste solo un modo di raccontare il caso Vannini. Il giornalista giudiziario farà il resoconto dei fatti selezionati e valutati dai giudici. Mentre il giornalista investigativo cercherà – come ha fatto Giulio Golia delle Iene – la testimonianza inedita di una vicina di casa mai ascoltata dai carabinieri.

Di certo il ruolo di megafono delle corti è meno rischioso. Di certo è più complicato svolgere una contro-inchiesta che segnala la sciatteria delle indagini ufficiali, come ha fatto – sempre su Rai3 – Federica Sciarelli. Si può criticare la veemenza di alcuni inviati, ma su un punto tutti dovrebbero essere d’accordo: se un giornalista pensa di avere scoperto incongruenze tra una testimonianza inedita da lui raccolta su un omicidio e la versione di un investigatore o di un imputato, può anzi deve cercare di intervistare i protagonisti. Pensiamo al caso Cucchi. Chi, prima del secondo processo ha cercato la verità oltre le informative taroccate, ha fatto giornalismo o “accanimento mediatico”?

I media non devono essere un quarto grado di giudizio, ma devono restare almeno un quarto potere. Non la ruota di scorta del terzo. Un giornalista non deve mai delegare in bianco a pm e carabinieri l’accertamento della verità. Il giudice estensore della sentenza di appello sul caso Vannini che ha tolto 9 anni di pena ad Antonio Ciontoli, derubricando il reato in omicidio colposo, si chiama Giancarlo De Cataldo. Dopo avere scritto Romanzo Criminale ha fatto anche il giurato in un talent di Rai3 e nessuno meglio di lui può comprendere la differenza tra accertamento della colpevolezza e accertamento della verità su un fatto. Infatti all’inizio della sentenza, proprio De Cataldo mette le mani avanti chiarendo i limiti del suo potere: il giudice si può esprimere solo sui fatti che gli sottopone il pm. Se De Cataldo è stato costretto a giudicare i fatti entro questo limite, i giornalisti possono, anzi devono, cercare di uscire dal perimetro giudiziario per capire se i fatti, così ricostruiti, siano veri o falsi.

 

Roberta Petrelluzzi può quindi restare tranquilla nel suo studio televisivo ad aspettare che la Cassazione le consegni la verità giudiziaria finale sul caso Vannini. I colleghi delle Iene e di Chi l’ha visto intanto faranno bene a cercare, fuori dagli studi televisivi e dai tribunali, la verità su quel che è successo quella notte a casa Ciontoli. Non si chiama accanimento mediatico, ma giornalismo investigativo.