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Ultimo aggiornamento il 02/05/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Da qualche giorno, sulla sua pagina Facebook, un anziano signore che si professa con somma pompa “commentatore calcistico delle tv campane” ha cambiato la foto del profilo: ora c’è un Aurelio De Laurentiis dallo sguardo altero, allo stadio, e la scritta “Strunz. Mò veditelo da solo il Napoli”.

È il riassunto eloquente dell’ultima vertigine di Partenope, città degli eccessi e dove la normalità è sovente vissuta come un’onta al dogma della Santissima Napoletanità, quella che suscitava il fastidio, giusto per fare un esempio, di Massimo Troisi buonanima (Ettore Scola dixit: “Massimo non amava il carattere napoletano, la cosiddetta allegria dei napoletani”).

È successo tutto la prima domenica d’aprile, durante una grottesca serata al Maradona. Il Napoli che in questa stagione sta ammazzando record e avversari ha preso quattro pappine dal Milan e la disfatta si è consumata in un’arena dagli spalti infernali e silenziosi: lo sciopero dei famigerati ultras contro il caro biglietti e i divieti per striscioni e tamburi e contro soprattutto il Pappone, come chiamano il presidente del Napoli. C’è stato persino un assurdo gemellaggio coi sostenitori rossoneri in trasferta, sancito dal coro “De Laurentiis figlio di puttana”. Coro che ha avuto il bis a Lecce, venerdì. Dalla festa alla forca in un amen. Questo spettacolo lunare, da cinema dell’assurdo, è stato definito “paradosso”, “autolesionismo”, finanche “tafazzismo”. La gioia per il terzo scudetto annunciato da settimane è stata sostituita dalla rissa fra gli stessi ultras, che ha portato all’apertura di un’inchiesta giudiziaria. Diciamolo pure: poteva accadere solo a Napoli, città che come sentenziò l’allenatore illuminista Rafa Benitez si sente “unica al mondo” senza vedere i suoi difetti.

La verità è che la festa rovinata domenica sera ha radici vecchie di almeno tre lustri, laddove la napoletanità si è sbiadita in modo volgare e ripetitivo in quella che Raffaele La Capria ha classificato come “napoletaneria”. E così è finita che l’odiato presidente non è mai stato accettato da gran parte di Napoli. “Il Romano” è l’altro soprannome dispregiativo affibbiato al produttore cinematografico. Lui ci ha messo ovviamente del suo, reclamando talvolta l’amore della folla come l’imperatore Commodo del “Gladiatore” e offrendo quattro anni fa ai tifosi lo scalpo di Carlo Ancelotti (Ancelotti eh!) per sostituirlo col neofita Rino Gattuso, subito acclamato dal popolo. Non a caso, lo slogan degli ultras che lo contestano violentemente è questo: “Napoli siamo noi”. Una convinzione antropologica condivisa anche dalle élite cittadine (scrittori, politici, magistrati, intellettuali, avvocati, giornalisti) che in questi giorni chiedono un “dialogo con il tifo organizzato” in vista del tricolore. Altro che partito della fermezza, come invece vorrebbe lo stesso De Laurentiis che ha chiamato “delinquenti” gli ultras.

Ma questo novello mistero napoletano del terzo scudetto, atteso da trentatré anni, è in fondo la nemesi naturale di quanto accaduto l’estate scorsa nel ritiro trentino del Napoli, a Dimaro. Era la prima metà di luglio. De Laurentiis era barricato in albergo e per motivi di sicurezza evitava di uscire. Stava costruendo – con il direttore sportivo Cristiano Giuntoli e l’allenatore Luciano Spalletti – lo squadrone di quest’anno ma il popolo invocava gli idoli appena andati via: Lorenzo Insigne, Kalidou Koulibaly e soprattutto Dries Mertens, il belga che alla napoletaneria aveva sacrificato persino il nome del figlioletto, chiamandolo Ciro Romeo. La sera del 16 luglio, di sabato, nella piazzetta di Dimaro fu presentata la nuova rosa. Sul palco anche uno dei due fuoriclasse di questo Napoli: il georgiano Khvicha Kvaratskhelia (l’altro è il nigeriano Victor Osimhen). Dalla folla si alzò un cartello con l’indicazione autostradale “A16” e poi vennero intonati cori di rimpianto per Ciro Mertens. Era nato il movimento A16, dal numero dell’autostrada che porta da Napoli a Bari, dove la famiglia è proprietaria della squadra cittadina. Insomma: un invito ad andarsene lì per sempre, vendendo il Napoli. Due settimane più tardi, il Pappone acquistò il sudcoreano Kim, autentico mostro della difesa, e apparve questo striscione: “Kim, Merit, Marlboro, tre pacchetti dieci euro. Pezzente non parli più, paga i debiti e sparisci”. Questo il clima, dunque. Otto mesi dopo gli azzurri sono lassù e lo devono anche al fatto di essersi finalmente liberati di Mertens, Insigne e Koulibaly, che lo stesso presidente ha accusato di recente di “nonnismo” nello spogliatoio.

A questo punto, il Napoli vincerà lo scudetto nonostante Napoli. Lo ha scritto il quotidiano online Il Napolista diretto da Massimiliano Gallo e che chi scrive ha fondato con lui nel 2010. Gallo ha fatto un appello-provocazione: “De Laurentiis rompa l’ultimo tabù: porti il Napoli a giocare fuori Napoli”. Del resto questo è un tricolore all’opposto di quelli conquistati tre decenni fa nella golden age di Diego Armando Maradona. È un titolo che non solo ha sorpreso e spiazzato la città, ma che è frutto di una programmazione attenta ai bilanci, uno scudetto nordico o milanese se vogliamo continuare nelle provocazioni. All’epoca, poi, gli scudetti furono vissuti come un riscatto dell’intero Mezzogiorno vessato atavicamente dal Nord e Maradona venne trasfigurato in un sovrano capopopolo come Masaniello. Una delle poche voci a contrastare questa metafora dannosa fu un intellettuale oggi dimenticato come Luigi Compagnone: “La vorrei vedere (la mia città, ndr) incontaminata da superstizioni secondo cui una promozione nel Pallone equivale a una promozione nel civile e nel sociale”. Ma l’impronta repubblicana e democratica, e non monarchica, di questa cavalcata è data da alcuni numeri: in questo Napoli ci sono giocatori di 18 nazionalità e parlare in dialetto non è obbligatorio. Anzi. Nello spogliatoio la lingua dominante è l’inglese e i due campioni dell’attacco, Osimhen e Kvara, appena possono volano via a Londra, Parigi o Milano per rilassarsi.

Poi, certo c’è la festa da preparare. Ci sono muri, case e monumenti già dipinti – e in alcuni casi imbrattati – d’azzurro e gli ambulanti si sono triplicati e fanno affari d’oro in nero (la camorra non è scomparsa). Ci sarà una festa spontanea quando la matematica confermerà il primato (l’ultima giornata di aprile o al più tardi la prima di maggio) e una ufficiale a giugno, allo stadio, almeno così pare. Sarà uno scudetto diviso tra due Napoli, lazzari contro illuministi, che ricorda l’episodio biblico di Salomone davanti alle due mamme che si contendevano un neonato. Lui, per capire chi fosse la vera, disse che avrebbe tagliato il bimbo a metà per darne una parte a ciascuna. La madre naturale lo supplicò: “Datelo all’altra preferisco perderlo anziché vederlo morire”. Ecco, chi sarà la madre falsa di questo scudetto?