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Ultimo aggiornamento il 30/04/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Questa analisi di Enrico Fierro è apparsa sul Fatto.

 

 

Le mafie sono pronte a cavalcare il disagio sociale provocato dalla pandemia. È l’allarme che circola in questi giorni, rilanciato da editorialisti e trasmissioni televisive. Il rischio c’è, è reale, ma viene amplificato in modo irresponsabile. Cui prodest? Giova a quei settori del sistema di potere che vogliono mano libera nel “dopo”, come sempre è stato nelle fasi ricostruttive seguite a grandi tragedie nazionali. Ed è tutta acqua che fa girare vorticosamente le pale del mulino della destra, compresi leghisti, sovranisti e adoratori di Orban. Che per il momento hanno affidato il lavoro sporco ad altri. Gruppi che si muovono agilmente sul web e sui social, che amplificano notizie su fatti “parziali” fino a farli diventare virali, e oggetto di analisi da parte di pigri editorialisti e commentatori tv, spade da brandire nello scontro politico da parte dei vari Salvini e Meloni. Siamo oltre l’uso delle fake news. Siamo all’information disorder, l’inquinamento delle informazioni, analizzato dagli studiosi Claire Warder e Hossein Derakshan. La strategia è quella di trasformare la protesta sociale, possibile in un Paese squassato dalle conseguenze del virus, in emergenza criminale.

È già questa la realtà del Paese piegato dalla quarantena? La risposta è un secco no, pronunciabile ad una sola condizione: saper distinguere e saper spiegare bene la realtà vera, non quella pompata dai media, e farlo ad alta voce. Gli audio che circolano sul web su presunti mafiosi che a Palermo organizzano l’assalto ai moderni forni (i supermarket), non nascondono piani eversivi di Cosa Nostra. “Sono sciacalli”, ha detto Leoluca Orlando. Al servizio di chi e di quali progetti è facile capirlo. Un “guappo di cartone” che a Pozzuoli esce per strada al grido “se non mangiamo uccidiamo la gente”, non è la camorra, ma un suo sottoprodotto. La signora di Benevento che minaccia di “accidere” il sindaco Mastella e promette 5mila uomini pronti al saccheggio, è sintomo di altro. Non certo di piani eversivi organizzati “dalle mafie”, come se esistesse una unica cabina di regia per organizzazioni che sono diverse per natura e sistema d’interessi. Non vi è, se non nei piani (questi sì reali) di “bestie” da tastiera, alcuna evidenza investigativa o giudiziaria che vada in questa direzione. Ma voi ve lo immaginate un narcotrafficante di Africo, pronto a capeggiare la rivolta del pane? Cioè ad esporsi per una cosa che non porta guadagni? La mafia ha altri problemi, innanzitutto lo stop del mercato della droga. Pochi giorni fa a Gioia Tauro sono stati sequestrati 500 chili di cocaina stoccata in campagna da un narcos.

Soldi (non so calcolare quanti) fermi perché il consumo è fermo, la gente non esce e le piazze di spaccio sono senza clientela. Le mafie sopportano l’oggi e aspettano pazientemente il dopo. Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, lo ha spiegato bene: “La ‘ndrangheta punta ad acquisire le aziende in crisi”. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, in un articolo sul nostro giornale, ha fatto una analisi lucidissima. La ‘ndrangheta sta attuando “una strategia conservativa, di “operosità silente”, l’obiettivo dei boss per il dopo è quello di “individuare i settori produttivi più appetibili, in cui immettere gli enormi capitali sporchi di cui” dispongono. Per capirci, dopo il terremoto che colpì Irpinia e Basilicata nel 1980, la camorra puntò alla ricostruzione, ai 64mila miliardi di lire investiti, stabilì accordi con le grandi imprese che calarono dal Nord. Diventò camorra spa con la complicità di parte della politica. Certo, anche in quella tragedia ci furono gli assalti ai camion degli aiuti, ma quella era la parte folkloristica dell’agire criminale, esaltarla servì solo a non farci vedere cosa accadde “dopo”.

Il disagio c’è, provocherà tensioni, ma criminalizzare la protesta sociale è una operazione rischiosa per la tenuta del Paese. Bisogna intervenire. Il governo lo sta facendo al meglio immettendo liquidità nelle famiglie e aiutando le fasce più deboli. È poco, è tanto? Certo, si può fare di più e meglio, ma anche qui la forza è saper distinguere. Ci sono città, come Napoli e Palermo, che da secoli “vivono in strada”. Qui la sopravvivenza è spesso affidata a lavori al limite della legalità. Ma il venditore di calzini e il parcheggiatore abusivo non li possiamo scambiare per dei boss. Se li mettiamo sullo stesso piano facciamo un grande favore alle mafie. Il lavoro in nero non è un tutto indistinto. L’operaio che si spacca la schiena in un cantiere senza garanzie non è la stessa cosa del suo datore di lavoro, in nero pure lui. Le partite Iva non sono un “popolo”. Dentro ci trovi il giovane costretto a farsi sfruttare, ma anche l’evasore fiscale e contributivo. L’avvocato con uno studio in una piccola realtà, e che oggi è allo stremo, non è paragonabile al grande avvocato con studio associato ai Parioli. Distinguere serve anche ad aiutare seriamente chi è in difficoltà, e a non favorire la coesione in blocchi omogenei di bisogni diversi e confliggenti. Distinguere è l’arte raffinata dei leader, ma è anche un dovere per chi ha la responsabilità di fare informazione e di orientare l’opinione pubblica.