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Ultimo aggiornamento il 29/04/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Qual è l’ultimo prodotto veramente innovativo creato da Apple? La risposta facile sarebbe: il Vision Pro, visore lanciato sul mercato statunitense il febbraio scorso e che permette, tra le altre cose, di sovrapporre elementi digitali al mondo fisico che ci circonda (facendo comparire le email davanti ai nostri occhi mentre camminiamo o, un domani, sovrapponendo le indicazioni del navigatore direttamente sulla strada).

Almeno per il momento – a causa del prezzo (3.500 dollari), delle dimensioni ingombranti e della necessità di portare con sé una batteria esterna – il Vision Pro rappresenta però una sorta di esperimento: il tentativo di Apple di entrare per prima e consolidare il suo ruolo in un settore che, secondo il ceo Tim Cook, rappresenta la next big thing tecnologica: la realtà aumentata.

Ci vorranno però anni affinché, eventualmente, si concretizzino le promesse dei visori in realtà aumentata e questi dispositivi diventino un prodotto di massa. Per il momento, il Vision Pro è infatti destinato solo ad appassionati o precursori. Apple punta a vendere circa 900mila Vision Pro nel corso del primo anno di commercializzazione: una cifra modesta se paragonata agli oltre dieci milioni di iPhone venduti tra il 2007 e il 2008, il primo anno di commercializzazione. In poche parole, ci potrebbe volere molto tempo perché il Vision Pro generi introiti pari almeno a quelli di segmenti secondari per Apple, come l’iPad o l’Apple Watch (di cui vende circa 50/60 milioni di dispositivi ogni anno).

Esclusa quindi l’incognita Vision Pro, l’ultimo prodotto di grande successo lanciato sul mercato dal colosso di Cupertino è proprio l’Apple Watch, introdotto nell’ormai lontano 2015. Un lasso di tempo significativo per un’azienda che, nei quindici anni precedenti, aveva lanciato l’iPod, l’iPhone, l’iPad e infine, per l’appunto, l’Apple Watch. Da allora, Apple si è limitata ad ampliare la sua gamma di accessori: gli auricolari AirPods, le cuffie AirPods Max (al modico prezzo di 580 euro) e altri gadget di vario tipo.

Considerando che le vendite di iPhone (che rappresentano da sole il 60 per cento del fatturato di Apple) sono stabili a quota 230 milioni di esemplari venduti ogni anno da quasi un decennio, come ha fatto l’azienda fondata da Steve Jobs a raddoppiare nello stesso lasso di tempo il suo fatturato, passato da 180 a 380 miliardi di dollari? Le risposte sono varie ma strettamente collegate tra loro. Prima di tutto, Apple è enormemente cresciuta nel settore dei servizi (App Store, Apple Pay, Music, tv, Arcade e tutti gli altri), che rappresentavano il 10 per cento del fatturato nel 2015 e valgono invece oggi il 25 per cento, secondi soltanto agli irraggiungibili iPhone.Nel corso del 2024, si stima che i servizi da soli potrebbero generare un fatturato da 100 miliardi di dollari, con una spesa media per singolo utente di 42 dollari all’anno.

Il secondo elemento che ha garantito ad Apple una costante crescita e uno stratosferico valore in borsa (2.600 miliardi di dollari) è aver portato all’esasperazione quella che è sempre stata una sua tradizionale strategia: estrarre dai suoi fedelissimi utenti sempre più valore.

L’esempio perfetto è quello degli accessori opzionali: dai già citati AirPods al caricabatterie (entrambi venduti a parte, a differenza di quanto avveniva fino a qualche anno fa), dai trasformatori necessari per attaccare i vecchi auricolari con filo (visto che gli iPhone non hanno più la porta necessaria) fino a quelli indispensabili per collegare praticamente ogni dispositivo ai Mac, che nella versione Air possiedono solo due ingressi USB-C. La continua riduzione delle porte e la vendita separata di accessori un tempo inclusi gratuitamente è un metodo infallibile, che costringe gli utenti Apple a spendere sempre più soldi per poter utilizzare normalmente i loro dispositivi.

Infine, c’è la storica e straordinaria capacità di Apple di rinchiudere i propri utenti in una gabbia dorata, fornendo loro un ecosistema di prodotti che funzionano alla perfezione se usati assieme (basta pensare a come il Mac e l’iPhone sono sincronizzati in ogni loro funzionalità) e una serie di programmi nativi che rendono molto complesso passare alla concorrenza. Passare da Mac a Windows o da iPhone ad Android mi costringerebbe, per esempio, a ripensare completamente il modo in cui sono archiviate e sincronizzate le mie foto, le mie note, i miei libri e (soprattutto) le mie password, essendo tutt’altro che semplice trasferirle su un dispositivo che non sia Apple. Ai tempi di Steve Jobs, l’opinione prevalente era che questa gabbia dorata avesse lo scopo di ottimizzare l’esperienza utente. Adesso, il sospetto è che sia soltanto un modo per impedirci di passare alla concorrenza e tenerci intrappolati a vita.Sospetto confermato dalla decisione del dipartimento di Giustizia statunitense di fare causa ad Apple con l’accusa di aver blindato i propri iPhone e l’ecosistema di servizi e dispositivi che gli gravita attorno, allo scopo di ostacolare il passaggio dei suoi utenti alla concorrenza e abusando così della propria posizione dominante.

Tra le tante accuse mosse dal dipartimento di Giustizia (che riguardano l’impossibilità di usare Apple Watch con telefoni Android, di utilizzare servizi di pagamento diversi da Apple Pay, aver impedito la nascita di una app di videogiochi che possa rivaleggiare con il suo Arcade e altro ancora), quella che ha forse più colpito l’immaginario collettivo riguarda un servizio apparentemente banale: la app di messaggistica nativa di Apple, iMessage. Nonostante in Europa e altrove nel mondo sia scarsamente usata, negli Stati Uniti iMessage è lo strumento di comunicazione dominante, contraddistinto dai messaggi di colore blu al posto del tradizionale verde degli sms. Comunicare tramite iMessage tra dispositivi Apple è un’esperienza molto simile a quella che si può avere su Whatsapp, scambiandosi video, immagini, gif, emoji, reazioni e tutto il resto.

Quando però si invia un messaggio da iMessage verso un telefono Android l’esperienza è molto peggiore: le foto sono di scarsa qualità, i video non si aprono, non si può condividere la posizione e altro ancora. Tutto ciò ha portato a quello che negli Stati Uniti viene chiamato “green bubble shaming”: la vergogna che prova chi, attraverso un telefono Android, fa visualizzare i messaggi con il colore verde invece che con il blu che indica che sono in uso due iPhone.

La questione più importante della faccenda è che, secondo il dipartimento di Giustizia, la scarsa esperienza vissuta da chi invia iMessage a telefoni Android è artificialmente creata da Apple proprio allo scopo di far percepire Android come inferiore, mentre è in realtà la società di Cupertino che ne sta limitando le funzionalità. In questo modo, attraverso il “green bubble shaming”, Apple incentiva gli utenti Android a passare ad iPhone, mentre facendo apparire i telefoni Android come inferiori incentiva gli utenti iPhone a non passare alla concorrenza.

Tutta la vicenda è stata riassunta in uno scambio di battute, citato nella causa, tra Tim Cook e un utente iPhone, che durante una conferenza si era lamentato della scarsa qualità della comunicazione con lo smartphone Android usato dalla madre. «Comprale un iPhone», aveva risposto Tim Cook. Una risposta che, involontariamente, ha esplicitato la strategia di Apple e che è diventata il simbolo stesso della causa in corso. Dopo aver tanto tirato la corda, con quella singola battuta Tim Cook potrebbe essere riuscito a spezzarla.