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Ultimo aggiornamento il 18/04/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Dall’inizio della pandemia di Covid-19 abbiamo avuto chiaro che una efficiente medicina territoriale è fondamentale per combattere il Coronavirus e per assistere i pazienti anche all’interno delle loro abitazioni, evitando un sovraffollamento nei reparti ospedalieri dedicati. Nel momento attuale siamo disorientati per i disservizi del nostro sistema sanitario. All’inizio si è costatato lo sbandamento legato al mordere dell’epidemia, nel nostro paese prima che altrove in Europa, poi, dopo più di un anno, è sotto i nostri occhi l’arrancare del programma vaccinale.

E spesso, nostalgicamente, abbiamo ricordato una brillante proposta dell’on Livia Turco, avanzata già nel 2007, ma poi mai realizzata in modo compiuto e diffuso, probabilmente affondata nel “mare magnum” della nostra burocrazia, bloccata negli atti di indirizzo e di programmazione nazionali e regionali, scarsamente applicati. Eppure, sarebbe stato semplice realizzare concretamente questo progetto nel momento della organizzazione della medicina territoriale; oggi invece sembra più complicato cambiare l’esistente, e ristrutturare di conseguenza tutti i servizi territoriali. Applicando invece correttamente questo modello nuovo, si potrebbe interpretare il vero spirito della prevenzione.

Come si possono definire le Case della Salute dette anche Ospedali di Comunità? Esse sono le strutture dove si può riorganizzare e rafforzare quell’assistenza territoriale che ha mostrato tutte le sue carenze: esse sono il primo livello di intervento tra medico e paziente e, come presidio del distretto, la loro gestione è affidata al Dipartimento di Cure Primarie. Come si realizza tutto ciò? Aggregando, anche fisicamente, l’assistenza primaria con le cure specialistiche più complesse, raggruppando cioè, in ragione anche della contiguità spaziale, un gruppo di funzioni ed attività che attualmente sono sparpagliate sul territorio. Purtroppo, finora è mancata una strategia nazionale per sostenere tali strutture, e quindi, a causa della tipologia federalista della nostra sanità, si evidenziano notevoli differenze regionali nella loro attuazione. In Emilia Romagna la loro presenza è forte, ben strutturata ed efficiente. In Toscana si sono invece fatti passi indietro, altrove si sta provando ad implementarle.

Considerando che il Distretto copre una popolazione di circa 60.000 cittadini, le case della salute potrebbero  essere aree elementari cui afferiscono circa  10.000 cittadini  o più, facenti capo ad un’unica struttura (ed abbiamo tanti edifici  inutilizzati o sottoutilizzati) ove un gruppo di specialisti e varie professionalità operano, in concerto tra loro, e in rete con gli ambulatori dei Medici di Medicina Generale ed i Pediatri di Libera Scelta, nonché con i Dipartimenti Territoriali delle Asl ed i Servizi Sociali. Vero è che gli studi dei medici di medicina generale sono disposti più capillarmente sul territorio, ma interagendo con le case della salute, essi potrebbero estendere l’assistenza primaria oltre le ore di apertura dei loro studi, offrendo una continuità h 24 delle loro cure; contestualmente essi si potrebbero avvalere di una consulenza specialistica in tempo reale.

Oltre ai MMG e PLS, molte professionalità possono far capo a questo presidio: psicologi, infermieri, ostetriche, fisioterapisti, personale dedicato alle cure perinatali e all’Infanzia. Infine, ma non per importanza, le case della salute potrebbero essere anche sede di esecuzione di esami di laboratorio, di esami radiologici e strumentali. Con un solo ticket si affronta in 30 gg un percorso diagnostico che viene aperto comunque dal medico di base e, concentrando accessi e visite specialistiche. si può ottenere la diagnosi in tempi brevi: oltre all‘innegabile beneficio per il paziente, si realizza anche una notevole riduzione degli accessi ai PS. In queste strutture, inoltre, sempre osservando i bisogni della popolazione, possono anche essere previste lungodegenze, day surgery, cure palliative; si può allocare in esse il CUP, il servizio 118, e varie strutture amministrative. 

Assistenti sociali ed educatori sanitari potrebbero infine operare di concerto anche con associazioni dei cittadini. Si può infine accentuare il supporto al paziente cronico. La regione che più si è distinta nel perfezionare l‘attività di queste strutture è l’Emilia Romagna, che ne ha 120, per una utenza di 2,4 milioni di cittadini, la metà degli abitanti. Da quando sono state istituite, nel 2010, gli accessi al PS si sono ridotti del 25% (se nella struttura è presente anche il medico), i ricoveri ospedalieri sono calati del 4,5% (per diabete, scompenso cardiaco, BCO). Si è infine implementata l’assistenza domiciliare del 9,5%. In esse sono impegnati 1900 MMG, di cui 500 a tempo pieno, 260 PLS di cui 90 stabili, 430 infermieri, 190 ostetriche, 60 assistenti sociali, più tecnici, amministrativi ed altro personale sanitario.

In strutture come queste si realizza veramente la medicina proattiva o di iniziativa, che va verso il cittadino, differente da quella di attesa, praticata finora. Con la medicina proattiva il sanitario individua i possibili bisogni ed interviene pianificando col paziente le azioni opportune, stimolando l’autogestione del paziente. In Campania si è parlato di SPS strutture polifunzionali per la salute. Esistono, ad esempio ad Avellino (Bisaccia), dove c’è una struttura con: Card, Ocul, CH, Diabet, Centro Vaccinale, Neur, Rsa; 18 posti di riabilitazione psichiatrica. Anche a Napoli, ASN Na1, si è riconvertito l’Ospedale S. Gennaro, trasformandolo in una SPS, con assistenza anziani, Laboratorio, Radiologia, Guardia Medica; Nutrizione Artificiale, tra i più importanti.

Si intuisce facilmente il supporto che tali strutture avrebbero potuto dare nel momento della pandemia: innanzitutto, opportunamente informatizzate, avrebbero fornito in tempo reale una valida anagrafe sanitaria di tutti i cittadini, catalogati per residenza, età, gruppi familiari, patologie, utilizzo dei farmaci, fragilità, e così via. Così sarebbe stato più semplice individuare dei criteri che potevano rendere uniforme la campagna vaccinale, che in molte regioni si sta rivelando lenta perché, a parte il fallimento della puntuale consegna delle dosi, che non possiamo imputare al nostro governo né alle nostre regioni, molti cittadini incontrano difficolta nel prenotarsi on line, non hanno informazioni corrette sulla tipologia di vaccino indicata per loro, sui tempi delle somministrazioni, e così via. Ci sono poi casi più virtuosi, come per esempio il Lazio, che ha mutuato tutto il processo da Israele.

Le case della salute potrebbero anche essere la sede delle USCA, Unità speciali di continuità assistenziale, Esse sono state introdotte dal decreto 14/20 del 9 marzo, da tutte le Regioni e province autonome. Il loro compito è quello di gestire la sorveglianza dei malati Covid che si trovano in isolamento domiciliare. Deve essere prevista almeno un’unità ogni 50mila abitanti. L’istituzione delle USCA varia da Regione a Regione. Ad attivare le unità devono essere i medici di base. Esse gestiscono i pazienti attraverso il consulto telefonico, il consulto video, e attraverso le visite domiciliari. Tra i loro compiti c’è anche quello di effettuare i tamponi, almeno in alcuni territori, e seguono i pazienti dopo le dimissioni dall'ospedale. Le USCA devono essere attive sette giorni su sette, dalle 8 alle 20. 

Le USCA all’interno delle case della salute sarebbero coadiuvate dalle professionalità presenti come laboratori, radiologie, 118, etc. e le loro attività sarebbero così opportunamente supportate, nonché essere punti vaccinali, utilizzando al meglio tutto il personale sanitario in esse presente.