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Ultimo aggiornamento il 18/04/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Questa intervista di Enrico Fierro a padre Alex Zanotelli è apparsa su Domani.

 

«Quando sento queste lamentazioni sul Natale, sulle piste da sci, sulla richiesta di essere liberi di girare per i centri commerciali ad acquistare cose che per lo più non ci servono, sto male. La pandemia uccide centinaia di persone al giorno e noi assistiamo indifferenti alla triste ragioneria delle vittime. Sono uomini e donne che muoiono da soli. Sofferenze, vite spezzate, affetti che vanno via, speranze finite, e noi pensiamo alle luminarie. Ma cosa siamo diventati?». Padre Alex Zanotelli, 82 anni, è uomo di fede, ma anche di dubbio. Figlio di un falegname antifascista di Livo, Val di Non, e primo di sette fratelli, è entrato in seminario all’età di undici anni. Da missionario comboniano ha cercato Dio negli angoli più bui e disperati del mondo. In Kenya, a Nairobi, nello slum di Karogocho, dove ha vissuto dodici anni in una baracca. Come gli altri, gli ultimi che gli hanno regalato nuovi motivi per alimentare la sua fede, ma anche, e spesso, ragioni per chiedersi «Dio dove sei?».

Con padre Alex ci siamo visti nel 2015, in una triste giornata di morte e violenza al Rione Sanità. È questa periferia nel cuore di Napoli, cara a Totò e a Eduardo, la sua nuova casa, qui vive da anni in tre piccole stanze attaccate alla Chiesa di San Vincenzo. Non ha il cellulare, per raggiungerlo ci si deve affidare alla infinita pazienza e al telefonino della signora Felicia, un medico che tutti chiamano Felicetta, e che gli fa da portavoce (nel senso letterale del termine). Era un giorno di settembre e la camorra aveva ucciso un giovane innocente di 17 anni, Genny Cesarano. «Dio non manderà nessuno a salvarci – disse il missionario comboniano al funerale – popolo della Sanità, dobbiamo dire basta alla camorra, allo spaccio, alla violenza».

Padre Alex, parlavamo del dolore che le provoca il chiacchiericcio sul Natale nel pieno dell’emergenza Covid-19.

«Provo lo stesso male che provavo quando ero a Nairobi, a Karogocho, sentivo il Natale che si preparava in Europa, mentre la mia realtà era fatta di gente che cercava il cibo in una discarica. E allora, lo confesso, mi viene una sorta di rifiuto a festeggiare, vorrei spostare la festività al sette gennaio, come fanno alcune chiese orientali. Perché il Natale è stato snaturato del suo significato essenziale, e trasformato nella più grande festa del consumismo mondiale».

Lo slogan del momento è il ritorno alla normalità. Le piace?

«Ma è impossibile tornare alla normalità. Al mondo di prima dove il 10 per cento consuma il 90 per cento dei beni prodotti sul pianeta. È una situazione insostenibile. La pandemia che stiamo vivendo è uno dei frutti avvelenati creati da un modello di sviluppo economico malato. Gli straricchi mondiali fanno tanta carità, hanno fondazioni, spendono soldi, ma il loro impegno caritatevole ha un solo obiettivo, evitare il cambiamento radicale del sistema. Magari celebrassimo il Natale accogliendo il messaggio che la nascita del povero Gesù di Nazaret ci ha lasciato. Lui nacque in una capanna, ora io non dico che per seguire il messaggio di Cristo dovremmo tutti vivere in una baracca, no, Dio ci vuole felici anche in terra, ma un minimo di sobrietà, di capacità di contenerci, il rispetto verso gli altri, ecco, queste cose ci aiuterebbero a capire che dobbiamo cambiare stili e modi di vita. Abbiamo avuto la prima ondata del virus, abbiamo contato i morti, sperimentato la fragilità della nostra organizzazione sociale, il modo ingiusto in cui viene redistribuita la ricchezza, ma non abbiamo fatto tesoro degli insegnamenti. Siamo tornati subito alla cosiddetta normalità, con un’ansia veramente irresponsabile. Feste, vacanze all’estero, la voglia di apparire e di consumare. L’indifferenza verso gli altri. Così siamo arrivati alla seconda ondata. Ne vogliamo una terza? Questa è la cosa che mi fa male, l’egoismo umano. Possiamo rifiutare le mille cose superflue, vivere in modo più semplice, saremmo molto più felici e permetteremmo al pianeta di sopportarci».

Eppure nella prima fase della pandemia lo slogan era ne usciremo migliori. Padre Alex, cos’era, una speranza? Lei ci ha mai creduto?

«Ma no, ero totalmente scettico. Sono credente e non perdo mai la speranza, ma la Bibbia ci insegna tante cose. Se riflettiamo sul diluvio universale, qual era il messaggio di Noé? Cambiare, questo chiedeva alla gente, cambiare il rapporto con gli altri e col mondo, sconfiggere ingiustizie e povertà. Non lo ascoltarono, anche loro ambivano alla normalità, e arrivò il diluvio. Prendiamo Gesù, comprese che si andava allo scontro con Roma, fece di tutto per farlo capire, poi arrivarono le legioni romane che distrussero Gerusalemme e dispersero il popolo ebraico. Ieri come oggi, la gente rifiuta il messaggio di Cristo, non vuole cambiare vita. C’è qualcosa nel cuore dell’uomo che non va».

All’uomo di Chiesa chiedo se c’è qualcosa che non è disposto a perdonare all’economia, alla politica, in questa terribile fase che sta attraversando l’umanità?

«Non è questione di perdono o non perdono. Il problema è che questo sistema è insostenibile. Io mi rifiuto di accettare le scelte di chi ha in mano le leve dell’economia. E non capisco il governo italiano che per uscire dalla crisi economica provocata dalla pandemia, investe in un mare di cose inutili. Ma come si fa a puntare ancora su grandi, costose ed inutili opere pubbliche? Penso alla Lione-Torino, alle discussioni sul Ponte di Messina, ma via. Cosa ci vuole a capire che bisogna investire sull’acqua. Certo, nei progetti del governo se ne parla, ma è per mettere le mani sull’acqua intesa come ricchezza da sfruttare. La legge sulla ripubblicizzazione è ancora ferma in Commissione ambiente. L’acqua come bene pubblico intoccabile era uno dei punti programmatici fondamentali dei Cinquestelle, cosa stanno facendo? Per ripubblicizzare non occorrono 20 o 30 miliardi, come hanno scritto i grandi giornali, ma due miliardi massimo. Perché non investire sulla nostra rete idrica nazionale, che accumula perdite enormi pari al 50 per cento. È un crimine. Questa è una grande opera al servizio del bene comune. Vogliamo parlare delle armi, dei miliardi investiti, degli interessi della nostra industria?».

Padre, tutti ricordano le sue battaglie contro le leggi che criminalizzano l’immigrazione e l’accoglienza. Il dibattito su questi temi in Italia è lacerante e tocca tutti gli strati sociali. Gli italiani sono diventati razzisti?

«Ogni mercoledì del mese facciamo il digiuno di giustizia in solidarietà con i migranti davanti al parlamento. I decreti sicurezza voluti da Salvini sono la negazione di qualsiasi diritto previsto dalla nostra Costituzione, ma anche l’atteggiamento dell’attuale governo non mi piace. Come fanno a trattenere le navi umanitarie nei porti, per quale ragione impediscono alle organizzazioni non governative di lavorare nel Mediterraneo per salvare vite? Per quanto riguarda gli italiani è chiaro che la semina razzista di tutti questi anni ha lasciato tracce. Il problema è mondiale. In Europa c’è un pensiero profondo che riemerge. Noi avevamo il diritto di invadere il mondo per portare la nostra civiltà. In questo pensiero vedo un sottofondo razzista che riemerge. In Italia abbiamo la necessità di fare un grande salto di qualità, e in questo il ruolo della Chiesa è fondamentale. Ripartiamo dall’enciclica del papa Fratelli tutti. Voglio essere critico anche col mio mondo, vedo ancora molte parrocchie indifferenti, troppi preti sensibili ai richiami della destra più oscurantista. Dobbiamo tutti capire che non c’è alternativa ad un mondo plurale, o lo accettiamo a saremo destinati a sbranarci».

Sulla diffusione di ideologie razziste tv e web stanno svolgendo un ruolo allarmante.

«La funzione dei social nel diffondere slogan razzisti è straordinaria, ma non dobbiamo dimenticare che dietro c’è la mano di una destra mondiale ben organizzata che ha soldi a non finire e che investe su questo. Sono gli stessi ambienti che odiano papa Francesco e lo considerano una anomalia per la Chiesa».

In una bella intervista al Corriere della sera di un paio di anni fa, lei parlò del volto di Dio e disse di averlo trovato negli occhi di Florence. Chi era?

«In quel periodo assistevo le ragazzine ammalate di Aids. Florence aveva 15 anni, abbandonata dalla madre cominciò a prostituirsi a 11. Una bambina. Mi dissero che stava morendo e con un paio di fedeli andai a trovarla. La sua baracca era buia, con un cero illuminai il suo volto bellissimo devastato dalle piaghe della malattia. Cominciò a pregare. Lei mi fissò a lungo, poi disse "Alex io sono il volto di Dio. Dio è mamma”. Morivano in letti sporchi e baracche senza luce, le ragazzine della bidonville, e io al loro fianco assistevo impotente a tanta sofferenza. Loro mi davano la forza di andare avanti nella fede, ma mi mettevano anche di fronte al dubbio. “Dio dove sei?”, mi chiedevo nei momenti di sconforto. Ecco, Dio è in Florence, negli ultimi, negli sfruttati, in chi non ha una casa e un lavoro, in quei disperati che muoiono in mare. Dio è negli occhi dei deboli».