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Ultimo aggiornamento il 19/04/2024

Saleincorpo

Un'idea di Carlo Meoli

Enrico Fierro, avellinese, giornalista del "Fatto Quotidiano", ha scritto per "Saleincorpo" non solo un ricordo di ciò che accadde il 23 novembre del 1980. Nei suoi libri ha anche svelato la vergogna, lo scandalo dei miliardi sperperati, delle tangenti, della mafia irpina che mise le mani sui fondi per i terremotati. A seguire il suo pezzo.

 

Dov’ero, cosa stavo facendo quella sera? E’ una domanda che mi pongo sempre da quel 23 novembre del 1980, 39 anni fa. Cerco di non perdere la memoria, soprattutto quella dei particolari. Ricordo tutto, come chi ha vissuto un evento straordinario della vita. Come chi ha visto in faccia la guerra e la morte. Perché quello è stato il terremoto che la sera del 23 novembre 1980 colpì l’Irpinia, Napoli, il Salernitano, l’osso malato del Sud fino alla Basilicata. Una guerra con i morti, 2914, i feriti, 9mila, gli sfollati, 280mila, ma senza un nemico che ti bombarda. Un nemico invisibile, che però c’era.

Con facce e corpi. La classe politica che dei paesi dell’interno se ne era strafottuta. Onorevoli, consiglieri regionali, sindaci che cianciavano di sviluppo e di industrie, così, a vuoto, ma che non curavano le mura fradice di quei poveri paesini. La vita di quelle anime trattate sempre come clienti da usare il giorno del voto, e basta. Uomini, donne e ragazzi senza diritti, neppure quello di vivere. La ricordo quella sera preceduta, ad Avellino, la città dove vivevo, da una giornata di sole. Ricordo finanche come ero vestito. Bene, perché dovevo uscire con una bella ragazza. Stavamo andando a Salerno, quando sul raccordo autostradale l’asfalto cominciò a tremare. Erano le sette e mezzo di sera. Ricordo l’inversione di marcia, la paura e il ritorno ad Avellino. La città, avvolta da una strana nebbia, appariva spettrale. Macerie, case cadute, fantasmi per strada. Sembrava bombardata, come il 14 settembre del 1943. Abbandonai la ragazza e mi incamminai verso il centro storico distrutto. Nessuno sapeva cosa fare. Non c’erano soccorsi, le autorimesse della prefettura con camion e ruspe erano chiuse. Non si trovavano le chiavi. Ma si saprà dopo. Ora c’era da scavare a mani nude. I primi morti li tirai fuori da una casa nei pressi del cimitero, aiutato da un altro passante. Era una famiglia intera: mamma, padre, due vecchi nonni. E tre bambini. Andammo avanti per tutta la notte, fino all’alba.

La città era nel caos più totale. Non c’era ancora la Protezione civile. Il tg aveva detto che “non si lamentavano vittime”. Ero un militante comunista e feci quello che all’epoca si faceva: cercai gli altri compagni. Ci riunimmo tutti sotto la sede della Federazione. Da Napoli era arrivato un giornalista dell’Unità, un Federico Geremicca ragazzino. Due compagni erano arrivati, solo dio sa come, da Lioni e Sant’Angelo dei Lombardi (il cratere) per raccontarci l’Apocalisse. Bastò poco per decidere e andare lì dove il terremoto aveva spianato tutto. E mi fermo qui nei ricordi di quelle ore. Quello che venne dopo fu una emergenza infinita. Fatta di ritardi, incompetenze, le prime ruberie.

Quello che venne dopo e per i mesi a venire, fu il volto bello di una Italia unita e solidale. Forse per l’ultima volta. Arrivarono i volontari dal Nord. Operai, studenti, giovani e uomini fatti, donne. Erano organizzati dai sindacati, dal Pci e dagli altri partiti. Dalla Chiesa. Portavano tende, scavavano, preparavano cibi caldi, organizzavano ospedali da campo. Nord e Sud uniti, quella fu la nostra Resistenza. Ricordo un professore di Fisica della Sapienza di Roma, un cinquantenne bravissimo nell’organizzare una mensa che forniva tre pasti al giorno a centinaia di sfollati. E tutto era buono sotto la neve di Lioni.

Crescemmo tutti in fretta in quei giorni. Imparammo a lottare, in un colpo capimmo cos’era la “Questione meridionale”. I decenni che vennero furono quelli della Ricostruzione. Uno scandalo infinito. 64mila miliardi di lire, una cifra che non riesco a trasformare negli euro di oggi. E una classe politica dominante che grazie a quel mare di soldi si proiettò al governo del Paese e ai vertici del partito della Dc. Uomini cresciuti nel piccolo cabotaggio della politica paesana e provinciale, si videro trasformati in ministri. E tutti straparlavano di sviluppo. Le industrie in montagna, i nuovi paesi, l’Eldorado. Non ricostruisco quella storia che ho raccontato in decine di articoli e in un libro.

I lettori più anziani forse ricordano ancora. Ai giovani consiglio di leggere su internet gli atti della Commissione Scalfaro e la relazione finale della Commissione Antimafia di Luciano Violante sulla Camorra. Lì c’è scritto tutto. Ma non nei processi che si fecero. Tangentopoli e Mani pulite erano ancora da venire, e finirono male. Quella classe politica nei tribunali fu assolta. Ma non dalla Storia che li ha messi nel libro nero dei politici falliti, imbroglioni e traditori della loro gente.

Basta ritornare nei paesi dell’osso per toccare con mano il fallimento della ricostruzione. C’è poca poesia nell’abbandono, nella violenza delle architetture del post terremoto. Nella tristezza dei nuclei industriali (20 tra Campania e Basilicata) vuoti. Nelle città trasformate in tristi periferie della metropoli napoletana. Io non dimentico e non ho dimenticato. Altri della mia generazione, all’epoca impegnati come me, hanno rimosso e si accontentano di celebrare i morti. Ai vivi non pensa più nessuno. Nord e Sud non sono più un corpo unito e solidale. L’Italia è sotto le macerie degli egoismi territoriali.