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Ultimo aggiornamento il 01/05/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Brutta bestia, i distinguo. Prendiamo l’ultimo dei trionfi annunciati dal governo: la strombazzata crescita del mercato del lavoro in un’economia praticamente immobile. Cosa dicono le analisi? Record dell’occupazione, ma crescono gli inattivi; aumentano i contratti stabili, ma non per le donne; disoccupazione ai minimi storici, ma i salari non recuperano l’inflazione. Insomma, c’è più gente al lavoro, ma i protagonisti di questo apparente boom sono prevalentemente maschi, in età avanzata (tradotto: che non sono andati in pensione per via di criteri più stringenti) e assai impoveriti, mentre una fetta crescente della popolazione è così disillusa da non cercare alcuna attività.

L’ulteriore brutta notizia è che non si tratta di una novità: al contrario, si inscrive nel quadro di un Paese stagnante e diseguale, in cui negli ultimi 20 anni, come quasi tutti sanno per esperienza personale o famigliare, la dinamica del lavoro è fatta di precarietà, frammentazione di impiego, stipendi da fame e condizioni impossibili per giovani e madri. C’è dunque assai poco da festeggiare, ma vale la pena fare un altro distinguo: proprio i giovani e le donne sono il cuore della Sacra Famiglia, nonché motore propulsore della spinta demografica cui tanto tiene il governo. Logica vorrebbe che l’esecutivo autoproclamatosi a fianco degli ultimi, incassata la vittoria di Pirro da esibire a media che spesso non fanno più lo sforzo di smontare la propaganda, riflettesse allora su queste condizioni: per sostenere famiglie, ragazzi e donne è necessario invertire la marcia. E radicalmente. Invece, dopo aver varato il 1º maggio scorso, in spregio alla storia nazionale, un “decreto lavoro” che liberalizza l’uso dei contratti a termine ed estende quello dei voucher rendendoli competitivi rispetto a una vera busta paga – forse non sanno che in Italia il 30% dei dipendenti privati guadagna all’anno meno di 12 mila euro lordi – adesso, in sordina, il governo si prepara ad aumentare l’incidenza del lavoro interinale e a togliere la protezione dalle cosiddette dimissioni in bianco (dopo 5 giorni di assenza ingiustificata, si considerano dimissioni volontarie). La ministra interessata, Elvira Calderone, sta infatti lavorando a un disegno di legge che ha quei due punti forti: sempre, naturalmente, con l’obiettivo di favorire l’occupazione.

È doveroso allora chiedersi di quale occupazione si tratti, e quanto questa strada sbatta vigorosamente contro la linea indicata all’articolo 3 della Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Già oggi, questo caposaldo dei diritti costituzionali è calpestato nei fatti: in Italia 2,9 milioni di persone lavorano irregolarmente, occupate soprattutto nell’agricoltura, nelle costruzioni, nel commercio e nella ristorazione. Sono uomini e donne che non scelgono questa condizione, ma la subiscono. Così come sono vittime di stipendi sotto la soglia della sussistenza: non solo il nostro è l’unico Paese Ocse in cui i salari reali sono diminuiti dal 1990 a oggi, ma è anche quello in cui il lavoro povero si concentra sulle donne (occupate solo nel 55% dei casi, e nel 64% dei part time) e sui giovani. Perché, allora, perseverare su questa strada, con misure precarizzanti? Qual è l’obiettivo? Difficile dirsi. Ma è utile ricordare che una popolazione stremata, cui è stato tolto anche il sostegno del Reddito di cittadinanza, non potrà mai essere un soggetto compiutamente politico, capace di partecipare alla vita democratica. Così come prevederebbe la Costituzione.

 

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