info@saleincorpo.it
Testata registrata presso il tribunale di Nocera Inferiore n.86 del 13/02/2017.
Direttore responsabile Alfonso Tramontano Guerritore / Editore Carlo Meoli. Questo sito non riceve contributi da enti pubblici. Sostieni Saleincorpo, sito indipendente. Puoi farlo versando un contributo a piacere e su base annua sul c/c bancario IT72E3253203200006575211933 intestato a Carlo Meoli. Causale Sostengo Saleincorpo. Grazie.
Code & Graphic by iLab Solutions
Ultimo aggiornamento il 01/05/2024

Saleincorpo

Un'idea di Carlo Meoli

Sul conflitto mediorientale siamo stanchi di leggere commenti da curva sud e le castronerie sui social. Per questo Saleincorpo ha deciso di pubblicare l'editoriale di Marco Travaglio apparso oggi sul Fatto. Un'analisi intelligente ed equilibrata che dovrebbe far riflettere.

 

Chi ama Israele perché è l’unica democrazia del Medio Oriente, per quanto sfigurata da 16 anni di governi Netanyahu (salvo brevi intervalli), dovrebbe leggere i suoi principali quotidiani e prendere esempio. Da quelli conservatori a quelli progressisti, dal Jerusalem Post ad Haaretz al Time of Israel, sono unanimi nel puntare il dito sull’unico vero responsabile politico della débâcle che ha regalato ad Hamas una vittoria insperata quanto inedita: “Bibi”, il premier più corrotto e più incapace, ma anche più longevo della storia dello Stato ebraico. Il “Mister Security” che non ha saputo garantire la sicurezza del suo Paese e del suo popolo, mettendo la firma sulla più cocente sconfitta dai tempi delle due guerre in Libano. Forse che la stampa israeliana se la fa con i terroristi di Hamas? O non sa distinguere fra aggressore e aggredito? O è al soldo dell’Iran? No, assolve semplicemente al primo dovere dell’informazione libera: raccontare, analizzare e commentare i fatti senza sconti per nessuno. E i fatti dicono che Israele ha tutto il diritto di esistere nei confini tracciati dall’Onu nel 1948; ha tutto il diritto di difendersi dalle aggressioni; merita tutta la solidarietà per le stragi e i sequestri di innocenti subiti nell’attacco terroristico di sabato. Ma oggi, trent’anni dopo gli accordi di Oslo fra Rabin e Arafat, non regge più la giustificazione dei territori occupati in attesa di restituirli in cambio del riconoscimento dai Paesi arabi, come Begin fece con Sadat a Camp David nel 1978. Anche perché, diversamente da allora, nessun vicino di Israele può (anche se volesse) distruggerlo. E della causa palestinese i Paesi arabi si sono sempre bellamente infischiati.

Persino un falco e un eroe di guerra come Ariel Sharon si era rassegnato all’idea dei due Stati, ritirandosi da Gaza e iniziando a farlo dalla Cisgiordania, e poi mollando la destra del Likud col fido Olmert per fondare il partito centrista Kadima. Non per bontà, filantropia o irenismo, ma per pragmatismo: non puoi convivere a lungo con milioni di palestinesi che ti odiano in casa tua o alla tua porta, reprimendoli dalla culla alla tomba e violando le risoluzioni Onu. I dati demografici sono impietosi: Israele ha 10 milioni di abitanti, di cui 7,5 ebrei, 2 palestinesi e il resto di altre etnie (tutti cittadini con diritto di voto); in Cisgiordania i palestinesi sono 3,5 milioni e a Gaza altri 2. Ebrei e palestinesi ormai si equivalgono e, siccome i primi fanno molti più figli dei secondi, il sorpasso è vicino. Annettere la Cisgiordania significherebbe consegnare in pochi anni parlamento e governo ai rappresentanti degli arabi: la fine dello Stato ebraico. Sharon e Olmert l’avevano capito vent’anni fa. Netanyahu neppure oggi.

E non potendo risolvere il problema annettendo i territori o deportandone gli abitanti, l’ha rimosso. Tutto tattica e niente strategia, ha ripreso le colonizzazioni, mandando in partibus infidelium centinaia di esaltati, che poi necessitano di sforzi immani di sicurezza per proteggerli dalle rappresaglie dei palestinesi espropriati in Giudea e Samaria. Infatti è lì a Nord che stazionano ben 26 battaglioni dell’esercito, lasciando senza bussola i servizi segreti (un tempo i migliori del mondo) e sguarnito il fronte Sud: quello di Gaza, presidiato da due compagnie di reclute e dalla polizia locale, subito uccise o catturate da Hamas. I veri nemici di Bibi erano ben altri che Hamas, usata con cinismo e finta furbizia contro Abu Mazen e gli altri leader “moderati” dell’Autorità palestinese che cogestisce con Israele la Cisgiordania. Una miopia folle e scollegata dalla realtà che il premier aveva persino rivendicato dinanzi alla polizia che lo interrogava in uno dei suoi tre processi per corruzione: “Abbiamo dei vicini che sono nostri acerrimi nemici… Io mando loro messaggi in continuazione, li inganno, li destabilizzo e li colpisco in testa… È impossibile raggiungere un accordo con loro… ma noi controlliamo l’altezza delle fiamme”. Sabato le fiamme, com’era ovvio dopo 56 anni di occupazione, non hanno bruciato solo Netanyahu, ma centinaia di vite innocenti. E ora bruceranno quelle di tanti riservisti che finora manifestavano contro la sua guerra privata ai giudici e la sua milizia privata voluta dal truce ministro Ben Gvir, e ora partono per il fronte della vera guerra. Intanto Bibi, prima dell’ultimo capolinea, dovrà trattare anche ufficialmente con Hamas per riavere gli ostaggi.

Questi purtroppo sono i fatti, anche se il coro degli ultrà delle opposte tifoserie cerca di oscurare la metà sgradita con la stessa tecnica di moralismo selettivo seguito per la guerra fra Russia e Ucraina: lo schema fumettistico dei “buoni” e dei “cattivi” che pretende di cancellare la complessità di grovigli storici, politici, etnici e religiosi pluridecennali. L’ironia della storia è che chi negava la “complessità” della questione russo-ucraina ora la riscopre per quella israelo-palestinese. Per costoro la “pace giusta” in Ucraina scatta in automatico col ritiro delle truppe dai territori occupati. Ma su Israele la formula magica non vale: è tutto più “complesso”. E lo è (infatti compriamo il gas dai migliori amici di Hamas). Ma lo è anche per l’Ucraina. Dopo decenni di conflitti latenti o guerreggiati, chi vuole fermare la guerra mondiale a rate deve porsi il problema della sicurezza di tutti, non di qualcuno a scapito degli altri. E la sicurezza non si ottiene scomunicando, bombardando e bulleggiando, ma ragionando, parlando e trattando compromessi.