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Ultimo aggiornamento il 01/05/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Avevano chiesto al governo 4 miliardi in più. Si ritrovano con due miliardi in meno. Taglio che – se la prossima manovra di bilancio confermerà la Nadef, nota di aggiornamento al Def – potrebbe essere il colpo di grazia per la disastrata sanità pubblica. E su questo i governatori sono tutti d’accordo, anche se con sfumature diverse. Dal leghista Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia, presidente della Conferenza delle Regioni) a Stefano Bonaccini, Pd, ai vertici dell’Emilia-Romagna.

“È il momento di fare scelte coraggiose, le risorse sono limitate, né Regioni e Comuni possono fare una lista della spesa infinita – dice Fedriga -. Anche noi dobbiamo fare proposte serie, in particolare per la sanità, io penso che non saranno sufficienti le risorse per risolvere i problemi che oggi ha”. Fedriga ha parlato ieri ai microfoni di In Mezz’ora, su Rai 3. Proprio come Bonaccini. “Sulla sanità sono molto deluso – ha spiegato quest’ultimo – e spero di essere smentito a breve. Quattro miliardi di euro per me sono persino pochi e quest’anno dopo tanti anni torna al 6,5% la spesa sanitaria in rapporto al Pil. Erano anni e anni che non succedeva. E nelle previsioni del governo, se non le correggeranno, si andrà al 6,2% tra due anni. Siamo già sedicesimi per poca spesa nella Ue”. La soluzione? Per Fedriga ci sarà bisogno di potenziare la collaborazione con la sanità privata. Per Bonaccini occorre aumentare di quattro miliardi ogni anno il Fondo sanitario nazionale. Proprio come prevede il progetto di legge di iniziativa popolare rivolto al Parlamento che ha lanciato insieme al suo assessore alla Salute Raffaele Donini, che è poi anche il coordinatore della commissione Sanità della Conferenza delle Regioni, e sul quale sta raccogliendo le firme. Che sia necessario fare molti passi indietro per tornare a una spesa sanitaria in rapporto al Pil intorno al 6,5% è acclarato: parliamo del 2005. Che la spesa pro capite sia decisamente inferiore alla media della Ue a 27, lo è altrettanto: 2.609 euro contro 3.269 nel 2020. In pratica, spendiamo meno della Repubblica Ceca e di Malta, con valori molto distanti dalla Francia (3.807 euro) e soprattutto dalla Germania (4.831). Nel frattempo, le forti disuguaglianze nell’accesso alle cure crescono. Secondo l’Istat, nel 2021 l’11,1% delle persone hanno dovuto rinunciare alle cure sanitarie, nel 2022 si stima siano state il 7%, per oltre il 4% a causa delle interminabili liste d’attesa e per il 3,2% per motivi economici. Intanto lievitava la spesa out of pocket, cioè quella privata, arrivata a quota 36,5 miliardi, su un totale di 168. Ma cosa stabilisce la Nadef per un sistema tragicamente provato dalla pandemia, che ha portato a galla carenze strutturali e di personale, con lunghissime liste d’attesa? Se l’impianto previsto sarà confermato dalla manovra finanziaria, dal 6,7% del Pil (2022) si scende al 6,6% nel 2023, per poi arrivare al 6,2% dal prossimo anno. Esattamente quanto previsto dal Def (Documento di economia e finanza del 2022, governo Draghi), che fissava la spesa in rapporto al Pil al 6,2% nel 2025.

È passato un mese e mezzo circa da quando le Regioni chiesero al ministro della Salute Orazio Schillaci di prevedere immediatamente per la sanità quei quattro miliardi in più. Ora la doccia gelata. Le conseguenze? “Se sarà tutto confermato il sistema sanitario non potrebbe più restare in piedi nemmeno nelle regioni che stanno assicurando l’assistenza sanitaria ai cittadini che provengono da altre aree del Paese – dice Raffaele Donini -. Mi auguro che questa Nadef scritta sull’acqua possa essere smentita”. La mobilità sanitaria – dato aggiornato al 2020, sulla base del report della Fondazione Gimbe – ha raggiunto un valore che supera i tre miliardi, in contrazione a causa della pandemia, che ha fortemente limitato gli spostamenti (nel 2018 superava i 4,6 miliardi). A ricorrere a cure fuori dalla propria regione sono soprattutto calabresi, campani, siciliani, lucani, sardi, pugliesi e abruzzesi. E ad accogliere di più sono ancora una volta le regioni del Centro-Nord, Emilia-Romagna in testa, seguita dalla Lombardia, dal Veneto e dalla Toscana. Le tre regioni con il maggiore indice di fuga sempre nel 2020 hanno generato debiti per oltre 300 milioni. Se ciò che prefigura Donini dovesse avverarsi a farne tragicamente le spese, prima di tutte le altre e ancora una volta, saranno le regioni del Meridione.