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Ultimo aggiornamento il 25/04/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Centinaia di post dedicati a Emanuele Sibillo, boss della “paranza dei bambini” ucciso a 20 anni nel 2015. Messaggi al genitore o al compagno carcerato. Canzoni che celebrano i detenuti e insultano le forze dell’ordine. Una comunità, quella mafiosa, resa riconoscibile da emoticon, simboli, tatuaggi e abbigliamento. La rivoluzione dei social network e l’affacciarsi delle nuove generazioni dei “rampolli dei boss” ha reso “trasparente” la “rete sociale del contesto mafioso”. E così sul web, non solo la promozione del brand criminale mette in un angolo l’antico valore dell’omertà in luogo dell’ostentazione di “lusso e violenza esibiti impunemente”, ma “l’assenza di mediazione nella rappresentazione” ha anche portato i mafiosi – e il loro “social clan” – a creare una sorta di autonarrazione, un tempo delegata alle “élite” di scrittori, giornalisti, sceneggiatori e registi.

È la mafia nell’era digitale, come la racconta il rapporto promosso dalla Fondazione Magna Grecia e curato dal professor Marcello Ravveduto, docente dell’Università di Salerno. Una ricerca che ripercorre come i clan e la loro “comunità di simili” negli ultimi anni abbiano legato all’esperienza criminale offline anche contenuti condivisi online, attraverso veri e propri influencer, “ambasciatori della mentalità mafiosa” che “riaffermano la reputazione del clan esaltando familiari in galera o deceduti”.

I ricercatori hanno scandagliato Youtube, Facebook, Instagram e TikTok con l’obiettivo di comprendere linguaggi e modalità di questa comunicazione messa in campo da quella che Ravveduto definisce “Google Generation Criminale”. Un fenomeno in gran parte osservato nella camorra campana, ma che vale per le cosche siciliane e foggiane, per la ’ndrangheta e per i clan sinti laziali. Proprio su TikTok è diventato un personaggio quasi venerato Es17, ovvero Emanuele Sibillo, il boss napoletano di quella che Roberto Saviano ribattezzò “La paranza dei bambini”. Video, stories, post commemorativi, ragazzini che ne imitano il look e si vestono come lui a Carnevale. Non marginale, poi, il ruolo dei cosiddetti “profili di coppia”, spesso gestiti dalla compagna del carcerato che, con estrema devozione, gli dedica video e canzoni in attesa del ritorno. Frasi come “ti aspetterò tutta la vita anima mia” e “nessun luogo è lontano per amarsi” sostituiscono i messaggi che una volta mogli e fidanzate affidavano alle radio private nelle rubriche delle dediche. Non solo un gesto di amore e fedeltà ma un modo per confermare la presenza e il controllo del territorio, pur virtuale.

La propaganda mafiosa ha anche una sua colonna sonora. Una sorta di playlist, da accompagnare alle stories, che attinge alla cultura pop di massa – come le sigle di serie e film cult tra cui Narcos e Il Padrino – ma soprattutto all’universo neomelodico e trapper dialettale. Su tutte, la “hit” di Vincenzo “Niko” Pandetta, nipote del boss catanese Salvatore Cappello, autore di canzoni come “Pistole nella Fendi” (a ribadire il binomio lusso-violenza) e “Dedicata a te” (ovvero allo zio carcerato). E che dire di “Rispetto e libertà” di Nello Amato, “Ce manche assaje” di Giusy Attanasio e “Malavita” di Enzo Caradonna. Testi dai messaggi chiari, di piena solidarietà ai carcerati e di estrema condanna agli “infami” e alle forze dell’ordine. La generazione Z delle mafie ha poi codici ben definiti anche nel campo delle cosiddette “emoji”. La “goccia di sangue”, la “fiamma”, il “leone” e soprattutto le “catene”, quest’ultima a simboleggiare il legame indissolubile ma anche il carcere. La rete del clan D’Amico di Ponticelli, soprannominata “Frauella” (fragolina, in napoletano) utilizza come tratto distintivo dei post proprio una fragola, affiancata a tatuaggi e frasi distintive. “Tra le varie organizzazioni – spiega la ricerca – la camorra sembra essere la maggiore produttrice di contenuti. Tuttavia, molti elementi trascendono l’appartenenza al singolo clan: ad esempio, il lusso e il ricorso a musiche neomelodiche si avvicinano pure alla malavita romana dei Casamonica”. Non solo. “L’analisi dei contenuti e dei network – racconta Ravveduto – conferma l’assenza di una regia che controlla e decide i contenuti pubblicabili. È sempre il singolo utente ad agire”. Non esiste, secondo la ricerca, un’attività centralizzata di propaganda come accade in Messico, con il cartello di Jalisco “Nueva Generación”. “Anche quando si genera una faida, i soggetti agiscono singolarmente”, si legge nel rapporto. Una faida, oppure una shit storm, come quella registrata sotto un post del giugno 2021 di Francesco Emilio Borrelli, in cui il deputato dei Verdi commentava il video di una sfilata di auto di lusso in occasione della comunione del figlio di un boss. La reazione fu una valanga di commenti dal tenore di “pensate ai fatti vostri che vivete più a lungo”.

Il web come metodo di affiliazione, dunque? “No, il social clan riguarda persone già intranee. Il percorso di affiliazione si continua a fare sul territorio”, chiosa Ravveduto.