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Ultimo aggiornamento il 18/06/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Il gesto di Adalgisa Gamba, una mamma di Torre del Greco che ha ucciso il figlio Francesco di due anni, mi ha lasciata in uno stato di confusione e con molte domande senza risposta immediata. Con la consapevolezza di dover scrivere proprio sulla risposta al male mi sono chiesta che tipo di giustizia bisognerebbe applicare in questo caso, se si può parlare davvero di male o se come scrive Giancarlo Tamanza , docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore  a proposito della “psicodinamica della colpa, della punizione e della riparazione”, si è trattato di “ un effetto di un cedimento del Sé… pensare che il reato è soggettivamente determinato da aspetti che non sono del tutto confinabili nell’intenzionalità razionale e neppure, primariamente, da un deficit di consapevolezza circa la necessità e l’utilità di rispettare la norma, bensì da assetti psichici profondi e in parte inconsapevoli che, eccezionalmente o sistematicamente, non riescono a salvaguardare la compensazione tra le istanze pulsionali e il senso di realtà.” Adalgisa si trova ora nel carcere femminile di Pozzuoli, arrestata per omicidio volontario aggravato. 

Si dice che “sanzionare significa giudicare un soggetto nell’uso della sua libertà”  e che la sanzione  qualifica il comando rendendolo giuridico e per tale ragione richiama il tema del male di cui il diritto si bagna essendo manifestazione di potere, solitamente alla radice del male ed anche perché sfocia nel giudizio, un elemento cruciale nel momento dell’ espiazione della pena.  Sebbene sia presente in ognuno di noi come forza distruttiva, può essere volontariamente accantonato per perseguire la scelta del bene, che si configura come una concreta risposta ad un atto illecito. Scrive Tommaso nella Summa Theologiae che “ nulla può essere malvagio per essenza”.  Cercare di ristabilire il bene , permettere al reo di rielaborare,  secondo adeguate dinamiche psicopedagogiche , un’azione malvagia commessa richiede di respirare a pieni polmoni il vero senso della pena , che non è un’addizione del male , quanto piuttosto un voler educare un’intera comunità all’esercizio del bene. Tuttavia per poter mettere in moto un tale meccanismo sarebbe opportuno e necessario un nuovo approccio di tutto il sistema penitenziario italiano. Il 6 aprile 2020, le vicende del carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno evidenziato ancor di più un problema che fa rumore ormai da anni , vedasi la storia di Cucchi. Le violenze , che il gip Sergio Enea nelle oltre duemila pagine di ordinanza ha definito “un’orribile mattanza” , sono state richiamate a più riprese come la punta di un iceberg. L’articolo della Costituzione 27 comma 3 ci dà un comandamento ben preciso: “ Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”  Ciò significa che viene sottintesa una funzione di recupero,  attraverso la consapevolezza e presa di coscienza del reo, la quale confida soprattutto in un “ cambiamento che nasce dalla relazione” ( cito Maria Rosaria Parruti in “Una giustizia diversa. Il modello riparativo e la questione penale” ). L’unica relazione che ho potuto constatare nella casa circondariale di S.M. Capua Vetere è stata quella tra manganelli e condannati, dunque una risposta con il male al male e un modello di giustizia riparativa venuto meno e non efficiente. Non vi sono giustificazioni che tengono poiché si trattava di compiere una scelta tra civiltà ed inciviltà. Si è preferita la seconda opzione ignorando il criterio di qualità della pena , rendendo la vita carceraria disumanizzante e dunque non corrispondente né al modello di giustizia riparativa né al comma 3 art.27. 

“L’uomo che commette un male non può capire il male commesso se viene collocato in una situazione nella quale a sua volta diventa vittima.” Citazione di Balducchi decisamente calzante con l’episodio del carcere campano, ma mi chiedo cosa sia rimasto a quei detenuti, vittime e carnefici, i quali non sono stati, in quel momento, educati contro la violenza e si sono ritrovati senza un giusto esempio da seguire proprio nel luogo in cui dovrebbero essere aiutati nel loro processo di responsabilizzazione e ritorno alla comunità che non è mai facile o privo di pregiudizi. Penso alle relazioni e ai legami sociali che nella vicenda del 6 aprile ( e seguenti mesi) non sono stati creati, ad un approccio psicopedagogico fuori controllo, ai detenuti che,  pur essendo tali,  hanno perso in quegli istanti di violenza il loro sentirsi persone, padrone di un’identità da restaurare, che sono lì appositamente per quello. 

La mancanza di empatia nei confronti dei condannati, il non spiegare loro che il carcere deve coincidere con uno spazio di preparazione ad una nuova convivenza sociale mi reca sfiducia nei confronti del sistema riparativo, che non ha sempre funzionato davvero, come nel caso di Angelo Izzo , un uomo che ha ucciso per la prima volta nel 1975 ( Massacro del Circeo) e,  ottenuta la semilibertà , di nuovo nel 2005 ( Massacro di Ferrazzano) . Allora io , come Hannah Arendt,  mi chiedo se una persona può davvero fare male senza essere malvagia , se alle volte il male è davvero banale perché sottratto alla forza del pensiero. ( “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo” , da Hannah Arendt “La banalità del male”).

Il caso Izzo rappresenta un pericolo per coloro i quali sono in galera e cercano di non delinquere più , poiché espone un intero sistema di espiazione della pena ad un rischio di fallire,  ingiustamente. La giustizia riparativa è, per me, teoricamente esatta: l’introduzione nell’ordinamento penale italiano della mediazione, raccomandata da una direttiva europea , intesa come procedimento volto al confronto e partecipazione attiva di reo e vittima del reato al caso che li vede interessati, prevista al momento per i minorenni, le attività di recupero nelle case circondariali , i supporti psicopedagogici fuori e dentro il carcere, il sostegno per il reinserimento nella comunità,  sono tutte promesse forti del modello riparativo , che raramente vengono mantenute e attuate. Tuttavia c’è da dire che dove l’idea è ben difesa e concretamente messa in pratica, con la corretta applicazione ed interpretazione della giustizia riparativa essa è un successo, che porta risultati attivi e benefici per la questione penale ad entrambe le parti , perché il reo ha occasione di riparare un danno, non accorciando la pena , ma evitando la recidiva. 

Convenzionalmente tutti noi siamo abituati a pensare che il condannato debba pagare, subendo , tramite la pena, una sofferenza pari a quella che abbia provocato, ma al dolore non si risponde con il dolore , perlomeno in una società detta civile. Ciò detto, le mie convinzioni sul modello riparativo vacillano alla luce della mala applicazione nel nostro sistema penale, ma non cedono, perché credo anch’io che il male, come scrive Tommaso d’Aquino, in tutte le sue forme non è altro che «amore disordinato» e per poterlo contrastare bisognerebbe, dunque,  prendersi del tempo e mettere tutto in ordine, svuotare i cassetti troppo pieni, sistemare gli scaffali e rassettare l’intera stanza della giustizia riparativa.