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Ultimo aggiornamento il 28/03/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Quando è partita, nell’ottobre del 2015 in aereo per Bruxelles, Valeria ha pensato che si stava aprendo una nuova fase della sua vita: “Dicevo addio alla mia città, forse per sempre. E all’Italia”. Oggi Valeria Imperato, 31 anni, originaria di Bari, vive e lavora in Belgio, a Gent. Si occupa di microbiologia: “Non sarei mai andata via, ma l’ho fatto per realizzarmi professionalmente”.

Triennale in biotecnologie all’università di Bari, magistrale in biotecnologie industriali all’Università di Milano Bicocca, dottorato di ricerca in biologia presso l’università di Hasselt (Belgio), Valeria si è focalizzata sullo studio di piante e batteri per purificare ambienti inquinati da idrocarburi. “A differenza di molti expat il primo impatto con la mia nazione d’adozione non è stato così forte: ci ero già stata per l’Erasmus traineeship e avevo svolto parte della tesi in un laboratorio di ricerca estero, esperienza consigliatissima”.

“Non dubito che il sistema della ricerca belga sia stato colpito dalla crisi della pandemia”, spiega al Fatto.it Valeria. Ma nel complesso, aggiunge, ha retto “come solo poteva succedere in una nazione che investe veramente e seriamente sulla scienza”. Oggi la ricercatrice pugliese lavora come expert microbiologist presso Aphea.Bio, una spin-off dell’Istituto fiammingo per le biotecnologie che ha come l’obiettivo di mettere a punto biopesticidi e biofertilizzanti di nuova generazione per l’agricoltura sostenibile. “Il mio ruolo consiste nell’ottimizzare i microorganismi considerati come i più promettenti per farli agire ancora meglio in campo. In pratica, tanto studio, tanti nuovi esperimenti da pianificare e svolgere ma anche tante soddisfazioni”.

La giornata lavorativa è ricca: momenti di studio di letteratura scientifica, pianificazione di nuovi esperimenti, rielaborazione di risultati a riunioni con altri colleghi, tutoraggio di studenti, attività sperimentale in laboratorio. “Non ci si annoia mai”, sorride. Valeria ama il suo lavoro perché ha molta libertà e l’organizzazione delle giornate dipende spesso da lei. “Qui c’è un grande rispetto per i lavoratori di tutte le età”. In quanto giovane ricercatrice Valeria dice di aver potuto “tracciare la mia strada in autonomia, lavorando duro ma non dovendo pregare nessuno. Si può perseguire una carriera scientifica essendo indipendenti economicamente. Al momento questi fattori spesso vengono a mancare in Italia per i giovani scienziati”.

Il costo della vita mediamente in Belgio è il 12% più alto rispetto all’Italia, spiega Valeria. “Ma anche i salari sono più alti e, data la mia esperienza – aggiunge – più dignitosi”. Un altro aspetto importante è la chiarezza contrattuale. “Niente sotterfugi, il mio inquadramento rispetta la mia formazione, la mia esperienza. E mi riferisco sia ai miei anni nel pubblico che a questa mia prima esperienza di lavoro in un’azienda privata che sto vivendo da dicembre”. Senza dimenticare l’aspetto tasse. Il Belgio, aggiunge Valeria, è uno degli Stati più tassati d’Europa. Le tasse se “pagate da tutti e gestite in modo appropriato non fanno altro che tornare indietro in termini di servizi. Faccio un esempio: sono stata alcuni mesi in disoccupazione in passato. Non ho chiesto un euro ai miei genitori e non ho nemmeno toccato i miei risparmi, dato che percepivo circa l’80% del mio precedente stipendio”. In più “l’ufficio di collocamento mi ha sostenuta mensilmente proponendomi corsi e possibilità lavorative”, spiega.

Per Valeria fare ricerca significa curiosità, entusiasmo, passione. Ma anche lavoro di squadra, pazienza. Ha mai pensato come sarebbe stata la sua vita se non fosse partita? “No, è una decisione che ho preso con fermezza per le mie ambizioni professionali. Se tornassi indietro farei la stessa scelta. La mia vita è qui e adesso”.

Cosa si aspetta dal futuro Valeria? “I miei sogni camminano con me, mai troppo lontani”, sorride. “Stiamo lavorando ai prodotti che usciranno sul mercato. Ma mi piacerebbe, un giorno, coordinare uno dei nostri dipartimenti e, chissà, diventare direttore tecnico”. In Italia, magari? Sì, ma solo “per fare il lavoro per cui mi sono formata, con il giusto inquadramento contrattuale. E relativo stipendio”.

(Dal Fatto)