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Ultimo aggiornamento il 19/04/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Mohammad Mirahmadi aveva un sogno, portare la famiglia a Glasgow, regalare a sua moglie e ai figli la libertà, costruire con loro un pezzo di futuro degno di essere vissuto. Mahammad Zana non ne poteva più delle violenze dei pasdaran che in Iran sono padroni della vita e della morte di tutti. Studiava psicologia all’Università. Anche Kamaran Brwa sognava l’Europa, insieme a Zrar Sarda, a Omar Fatah Nazwad, e ad altri 35 profughi sbarcati la sera del 20 settembre di due anni fa a Brancaleone, sulle coste della Calabria. 

Tutti erano finiti nelle mani di una organizzazione di trafficanti di uomini potentissima. Una piovra che estende i suoi tentacoli dall’Ucraina alla Georgia, che ha riferimenti, agenzie di viaggio e banche clandestine per lo spostamento di capitali in Iraq e Iran, punti di addestramento per gli scafisti, e una centrale in Turchia, nel cuore di Istanbul. Nomi, cognomi, riferimenti, scoperti da un accurato lavoro di indagine della Squadra mobile di Reggio Calabria coordinata dal pm Sara Amerio che illuminano in modo preciso la rete del traffico della disperazione. Tutto inizia la sera del 20 settembre di due anni fa, quando viene avvistato un veliero nelle acque di Brancaleone. Il mare è agitato, la barca è alla deriva. A bordo 34 uomini, 3 donne e altrettanti bambini. Al timone non c’è nessuno, perché i due scafisti sono fuggiti su un gommone. Con loro hanno trascinato Mohammad Mirahmadi e gli hanno dato un ordine preciso: «Torna al veliero e porta gli altri a terra». Mohammad ha paura, il mare è agitato e lui non ha mai visto barche e gommoni. Disperato si lancia sulla strada, vede un distributore, non sa una parola di italiano ma si fa capire. 

IL SALVATAGGIO

Chiede soccorso e i soccorsi arrivano. I suoi compagni di sventura vengono salvati. Viene rifocillato, curato, gli danno finalmente un letto. Il giorno dopo la polizia lo interroga. Gli chiedono di collaborare per rintracciare gli scafisti. E lui parla, dice tutto quello che sa, i volti che visto, le cose che ha sentito in Turchia e durante il viaggio. Così faranno anche gli altri. Tutti daranno una mano. Ed è la collaborazione dei profughi il miracolo, registrato già in occasione di altri sbarchi in Calabria, frutto di un “metodo” affinato dagli investigatori della Squadra mobile di Reggio. 

Mohammad racconta di essere partito dall’Iran con moglie e due figli nel 2014. Obiettivo arrivare a Glasgow, Scozia. Lì vive suo fratello che sicuramente potrà aiutarlo a trovare un lavoro e un po’ di pace. Arriva in Turchia, a Istanbul, ad Aksaray. In quel mahalle (quartiere), potrà incontrare un trafficante di nome Sadzar, che penserà al viaggio. «In Turchia – racconta ai poliziotti – tutti sanno che in quel quartiere ci sono i trafficanti che organizzano il viaggio in Europa, via mare, via terra con i camion, con i passaporti falsi se vuoi andare in aereo». Tutti sanno, anche le autorità turche. Aksaray è un coacervo di lingue e colori della pelle, qui arrivano asiatici, iraniani, iracheni, disperati che vogliono fuggire dalla violenza e raggiungere l’Europa. Vengono stipati in case, alberghetti, topaie. Chi può pagare parte. Chi no aspetta anche anni per raggranellare i soldi che servono per il viaggio. Fanno gli schiavi, si prostituiscono, si perdono nella megalopoli turca. 

Sadzar chiede 7mila dollari, una somma che lui non vuole vedere né toccare. «I soldi li fai arrivare a un market di Sulaymaniyya», gli ordina. È una città del Kurdistan iracheno ai confini con l’Iran. Mohammad accetta e incarica i suoi parenti di recarsi in Iraq e versare quanto stabilito. La cifra è alta, Mohammad ha già venduto tutto, ma i soldi non bastano anche per la moglie e i figli. Arriverà da solo in Europa, poi si occuperà di farsi raggiungere dalla famiglia. Passano tre settimane e riceve una telefonata (da un numero anonimo), è il trafficante che gli dice di spostarsi a Istanbul. Qui Sadzar lo preleva e lo porta in una casa fuori città, dove è richiuso per una settimana. Uscirà solo quando arriveranno altri membri dell’organizzazione, quelli addetti al trasferimento su una montagna. 

«Qui – racconta Mohammad – ho incontrato gli altri profughi che hanno fatto il viaggio con me. Siamo stati costretti a vivere all’aperto. Non c’era neppure una capanna, il cibo era scarso. L’unica preoccupazione dei trafficanti era legata ai nostri cellulari. Non dovevamo avere contatti con nessuno e ce li sequestrarono». Passano pochi giorni e il gruppo di migranti fa una marcia di nove ore a piedi, fino alla spiaggia di Izmir, Smirne. Il mare è agitato, gli scafisti nervosi. I 40 migranti vengono portati sul veliero a gruppi di quattro con un gommone. A bordo la situazione è da incubo. Gli scafisti pretendono da ognuno altri 5-10 euro a testa. Avevano promesso cibo e acqua, ma scarseggia tutto.

L’ordine dell’organizzazione è di nascondere i profughi, devono essere invisibili agli occhi indiscreti degli elicotteri che pattugliano quel tratto di mare. Sul ponte non devono stare, li chiudono nella stiva. Un buco dove uomini, donne e bambini sono costretti a dormire seduti. C’è un solo bagno. Rotto. Senza acqua e senza scarico. Il mare è agitato, le onde alte. La gente vomita e sta male. Il racconto del viaggio viene confermato anche da Mohammad Zana. Sei giorni di inferno.

A PIEDI IN TURCHIA

È fuggito dall’Iran e dallo strapotere dei pasdaran. «Se vuoi vivere tranquillo devi lavorare per loro. Ma io volevo solo studiare, amo la psicologia», racconta. Zana raggiunge la Turchia a piedi, in un viaggio che dura nove giorni. Sa dove andare a Istanbul, sa chi contattare nei vicoli di quella Tortuga dominata dai trafficanti che è Aksaray. Vive rinchiuso in una casa per venti giorni, poi lo spostano in un albergo dove incontra i suoi compagni di viaggio. Anche lui viene spostato in montagna, a dormire per sette giorni all’addiaccio prima di essere portato sulla spiaggia di Izmir. «I due scafisti non parlavano arabo o persiano, né sapevano esprimersi in inglese. Erano russi, forse ucraini. Ci portavano un po’ di pane e qualche pomodoro. Eravamo ammassati nella stiva e c’era un odore terribile perché il bagno era intasato». Kamaran Brwa è iracheno, e paga settemila dollari attraverso una agenzia di trasferimento soldi al trafficante iracheno Mala Adris, che ha contatti e referenti a Istanbul. Aspetta due mesi prima di essere trasferito sulla montagna, e dalla montagna al mare. Anche Zrar Sardan ha lasciato l’Iraq. Da musulmano è diventato cristiano, «rischiavo la vita». Trova il trafficante che gli può assicurare il passaggio in Europa grazie a Facebook. Il suo nome è Ari Bardashari.

Il suo profilo è pieno di foto che lo ritraggono in posa davanti a fuoriserie e a bordo piscina. I racconti dei profughi coincidono nell’indicazione dei luoghi e nella ricostruzione della rete di trafficanti. Grazie a loro si arriva alla identificazione degli scafisti. La polizia li rintraccia e li arresta. Sono due ucraini, Andril Bilooka e Anatolii Khmilovsky. Due sbandati di Borispol che vengono ingaggiati dall’organizzazione come scafisti. Non sanno nulla di vele e mari, e per questo vengono addestrati. A Batumi, grande città portuale sul Mar Nero ai confini con la Turchia. Vengono pagati e i loro soldi versati su un conto della Private Bank in Ucraina. Bilooka ha paura, in una chat via Telegram con la madre esprime il suo timore: «Se mondezza (riferito alla polizia, ndr) ci prende sono cazzi». Approdati in Calabria i due scafisti abbandonano il veliero e scappano. Devono arrivare a Roma, dove un altro membro dell’organizzazione, Serghey, troverà il modo di farli uscire dall’Italia. Progetto bloccato dall’arresto.

(Da Domani).