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Ultimo aggiornamento il 16/05/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

E’ una storia come altre, drammatica, tragica. Una storia di quelle che richiamano l’onore, la dignità e l’attaccamento alla Patria. Una storia giusta da ricordare, nel Giorno della Memoria. Ma soprattutto per me è la mia storia, perché racconta di Pasquale Volturo, classe 1916, prigioniero di guerra internato nel campo di concentramento di Dachau. Era mio padre, uno dei tanti soldati italiani impegnato sul fronte dei Balcani. Dopo la proclamazione dell’armistizio, l’8 settembre 1943, fu catturato dai tedeschi e gli fu chiesto di scegliere se continuare a combattere nelle loro fila o essere inviato nei campi di concentramento. Mio padre scelse, come tanti, la fedeltà alla Patria. Divenne così “prigioniero di guerra”. Siccome i tedeschi considerarono un tradimento, commesso dagli infidi italiani, la scelta patriottica, Hitler volle rendere più umiliante la condizione dei militari arrestati e trasformò la loro condizione da prigionieri ad internati, così da sottometterli ancor più al libero arbitrio tedesco. Nessun diritto, nessuna tutela, nessuna garanzia sanitaria. Solo schiavi da mantenere finché utili. Insieme con ebrei ed antifascisti, furono oltre 700.000 i soldati italiani avviati ai lavori forzati nei campi di detenzione. Tra questi, circa 100.000, stremati dalla durezza dell’internamento, decisero di diventare combattenti o ausiliari della Repubblica Sociale Italiana.

Mio padre, insieme agli altri internati, nonostante il trattamento disumano subìto, disse “NO” alla RSI. Uomo forte e di carattere, ogni volta gli si incrinava la voce quando ritornava con la mente a Dachau. I suoi ricordi hanno trasmesso alla ragazzina che ero il senso d’umiliazione, di fatiche disumane, di maltrattamenti e la paura di morire. Una paura forte, incessante, che diventava terrore ogni qualvolta i pasciuti soldati delle SS entravano con i loro pastori tedeschi nei miserrimi ricoveri dei prigionieri. Controllavano, selezionavano. Gli uomini più malandati venivano fatti scendere dal pagliericcio, sfiorati dai fucili ed accompagnati fuori dalle baracche, poi sparivano per sempre. Stenti, vessazioni ed abusi furono il suo pane quotidiano.

Era addetto al trasporto dei binari ferroviari: lui, gracile e minuto, ondeggiava sotto al peso dell’acciaio, ma stringeva i denti pensando alla sua mamma, ai suoi cari. Il cibo era scarso e pessimo; come tanti, di notte, approfittava del buio per andare dietro alle ricche mense dei tedeschi e cercare tra i rifiuti una buccia di carota, di rapa, o, con maggiore fortuna, qualche patata. Fu proprio durante una di quelle notti che un militare tedesco lo sorprese a “rubare cibo” e gli piantò la punta della sua baionetta nel polpaccio sinistro. Lui ce la fece a scappare e nascondersi. Si salvò. Da quell’episodio e da quella vita, che vita non era, mio padre aveva preso l’abitudine di raccogliere sempre le briciole dalla tavola apparecchiata e portarle alla bocca: era il suo marchio. Non quello degli ebrei, ma quello di un soldato italiano fedele alla sua Patria. Dopo tre anni di prigionia e lavori forzati tornò a casa e la mamma che, per tutto quel tempo lo aveva aspettato sveglia la notte vicino al camino, non lo riconobbe. Pesava 33 chili, il suo aspetto, i suoi abiti erano così miserevoli da non rendere subito gioioso l’abbraccio di mia nonna. Per tutto questo, per tutto ciò che è successo a tanti, occorre che non accada mai più.