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Un'idea di Carlo Meoli

Pubblichiamo questo editoriale apparso oggi (11/maggio/2019) sul "Fatto".

C’è molta confusione sotto i cieli, internazionali e nazionali. Io credo che in questi anni stiano cambiando, e molto rapidamente, gli assetti politici ma anche valoriali usciti dalla Seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti non sono più il Paese egemone, la guida indiscussa di quello che noi chiamiamo il “mondo civile”. Non c’è bisogno di vedere il formidabile film di Denys Arcand (il regista delle Invasioni barbariche) La caduta dell’impero americano per capire che, avvitandosi solo sul denaro, il proprio e l’altrui, è un Paese in piena decadenza morale che ha perso anche (Trump non ne è la causa ma l’inevitabile sbocco) quello spirito di unità nazionale che ne aveva costituito sempre la forza.

Ma gli anni attuali segnano anche il fallimento delle democrazie occidentali. La Democrazia infatti è un metodo, un sistema di regole, di forme e di procedure, non è un valore in sé e non propone valori. È un contenitore, un sacco vuoto che andrebbe riempito. Ma il pensiero e la pratica liberista e laica, che sono il substrato su cui la democrazia è nata, mentre facevano tabula rasa dei valori precedenti (complici anche “la morte di Dio” e delle ideologie, sia pure contrapposte) non sono state in grado di riempire questo vuoto se non con contenuti quantitativi e mercantili. Le monarchie assolute, le teocrazie, il potere carismatico e persino le dittature propongono invece valori forti, buoni o cattivi che siano, in genere condivisi dalla popolazione o da una buona parte di essa. Non è necessario che i governanti credano sul serio a quei valori – in genere non ci credono affatto – importante è che ci credano i governati.

La globalizzazione, portando con sé un’omologazione pressoché universale, ha enfatizzato tutte le contraddizioni, diciamo pure i deficit, del turbocapitalismo. Le tecnologie, soprattutto le più recenti, invece di unirci ci hanno separato. Di qui le controspinte verso aggregazioni identitarie, nazionaliste, comunitarie, espresse in forme reali ma anche virtuali (pur di sentirsi appartenenti a qualcosa le persone, non riuscendo più a farlo nella realtà, si aggregano sul web). C’è insomma in giro uno smarrimento, una perdita di punti fermi, solidi, di cui danno conto anche le cronache con crimini sempre più incomprensibili e mostruosi (“i delitti delle villette a schiera” come li chiamava Guido Ceronetti) e un’incomprensione sempre più visibile fra i sessi o generi come li si vuol chiamare ora.

Nonostante le apparenze non è la situazione economica, l’andar su e giù del Pil o dello spread di cui la gente capisce poco o nulla, il core della questione. Per restare nel nostro Paese, negli anni Cinquanta, noi italiani eravamo molto, ma molto più poveri di oggi. Ma c’erano uno slancio, una vitalità e anche un’allegria di cui chi vive le temperie attuali non può rendersi conto. La questione quindi sta nella perdita di senso. Nessuno, a meno che non sia obnubilato dal consumismo compulsivo, che è insieme causa ed effetto di questa perdita, può vivere un’intera vita, dalla culla alla tomba, senza un ideale. Qualsiasi esso sia.